Si avvicina alle sbarre, protende le braccia verso le guardie. Si taglia, ripetutamente, tra l'indifferenza delle guardie. Pochi minuti dopo, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza. Le telecamere immortalano tutto. Sono le ultime immagini di Hassan Sharaf, 20 anni, vivo. La telecamera del carcere di Viterbo segna le 14,02 del 23 luglio 2018: 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano. Le immagini li ritraggono mentre guardano in alto, verso l'inferriata della finestra: lì c'è appeso il ragazzo che agonizza. Nessuno interviene, nessuno si lancia per salvarlo.
Ora quelle immagini sono al centro di un caso drammatico e spinoso, che inevitabilmente ne evoca un altro: quello di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato in Egitto da uomini dello Stato cinque anni fa. Qua le parti si invertono: a morire è un giovane egiziano, in un carcere italiano dove non doveva trovarsi. E lo Stato italiano, che giustamente pretende (invano, per ora) che il governo egiziano faccia la sua parte per assicurare alla giustizia gli assassini di Regeni, non fa nulla per allontanare le ombre che gravano sulla morte di Hassan.
Il segno più chiaro dell'ostruzionismo è il provvedimento del giudice di Viterbo che rinvia alle calende greche l'udienza che dovrebbe riaprire l'inchiesta frettolosamente chiusa dalla Procura locale. Davanti all'opposizione di una associazione egiziana per i diritti umani, il provvedimento del magistrato ha spostato l'udienza dal 2019 al marzo 2024. Un rinvio di cinque anni. Possibile?
Eppure di cose da capire, nella morte di Hassan Sharaf ce ne sarebbero tante. É la storia di un ragazzo arrivato in Italia con i barconi, e finito come tanti altri nel giro della piccola delinquenza. Una condanna per furto, un altra per dieci euro di hashish. Quando lo arrestano per eseguire la pena, Hassan dovrebbe andare - lo dice l'ordine della Procura - in un carcere per minorenni. Invece lo portano prima a Regina Coeli poi, «per opportunità penitenziaria», in uno dei carceri più malfamati d'Italia, il «Mammagialla» di Viterbo, già teatro di pestaggi e di morti, ed investito di recente, tanto per dare una idea, da una indagine su un giro di spaccio di droga all'interno per cui vengono incriminati sia detenuti che agenti della polizia penitenziaria.
Hassan arriva al «Mammagialla» il 21 luglio 2017, accompagnato da una cartella clinica che attesta il suo stato di «deficit cognitivo» e di dipendenza, certificato da numerose visite dei medici del carcere romano. Ma a Viterbo viene sostanzialmente abbandonato a se stesso, vede il primo psichiatra dopo dieci mesi dal suo ingresso, a gennaio. In compenso finisce nel mirino degli agenti di custodia. Dopo una soffiata, gli perquisiscono la cella: viene, dice il verbale «afferrato per le braccia» e «reso innocuo». Il giorno dopo Saraf invece racconta ai medici di essere stato picchiato ripetutamente. Risposta del consiglio di disciplina, decisa il 9 aprile: quindici giorni di isolamento.
E qui la cosa si fa quasi incredibile. Per cinque mesi la sanzione non viene eseguita. Nel frattempo al «Mammagialla» entra il Garante dei detenuti, raccoglie racconti di altri prigionieri che parlano di pestaggi sistematici. Il 23 luglio, non si sa perchè e nemmeno chi, qualcuno decide di eseguire la sanzione e portare il ragazzo in isolamento. Il medico di turno, Elena Ninashvili, attesta che il detenuto è in grado di affrontare l'isolamento. Dirà poi di non averlo nemmeno visitato, e che il certificato le è stato portato già compilato dalle guardie.
«Era tranquillo e collaborativo», scrivono gli agenti. Invece i filmati mostrano un ragazzo agitato e disperato.
Eppure la Procura di Viterbo chiede di archiviare tutto, liquidando come «abuso di mezzi di correzione» il ceffone al ragazzo. E neanche i magistrati che dovevano farlo togliere dall'inferno di Viterbo non rispondono di nulla.
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