I diktat dello zar Putin e gli equilibri di forza

Per lo Zar il compromesso è l'accettazione "sic et simpliciter" dei confini che vuole il Cremlino, lo status dell'Ucraina può essere quello che disegna la Russia, le garanzie e le alleanze di Kiev possono essere solo quelle che vanno a genio a lui

I diktat dello zar Putin e gli equilibri di forza
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C'è una caratteristica che contraddistingue tutti gli autocrati: parlare per diktat. Di questa pratica Vladimir Putin è il principe inarrivabile. Utilizza contro l'Ucraina armi cinesi e iraniane. Eppure giocando con gli ultimatum e le minacce riesce ad evitare che Kiev usi missili occidentali contro obiettivi in territorio russo. Manda al macello soldati nord-coreani ma non tollera che ci siano soldati di Paesi Nato stanziati in Ucraina neppure come garanzia in tempo di pace. Per lo Zar il compromesso è l'accettazione "sic et simpliciter" dei confini che vuole il Cremlino, lo status dell'Ucraina può essere quello che disegna la Russia, le garanzie e le alleanze di Kiev possono essere solo quelle che vanno a genio a lui. Addirittura nella sua mente l'unica città adatta per un incontro con Zelensky è Mosca, cioè quel luogo ameno e tranquillo dove ogni tanto un oligarca finito nel cono d'ombra cade dalla finestra di un palazzo o un dissidente riceve a casa un biglietto di sola andata per la Siberia.

Se questa è la logica dello Zar Vladimir diventa difficile non solo raggiungere la pace ma addirittura cominciare una trattativa seria. Eppure prendendo per il naso Donald Trump con aperture, chiusure e proposte irricevibili sono mesi che Putin riesce a menare il can per l'aia: la Casa Bianca ventila sanzioni di secondo e terzo grado che restano nel cassetto, mentre il padrone del Cremlino mette in piedi a Pechino l'alleanza del Sud Globale da contrapporre alla Nato. Siamo al capovolgimento della commedia pirandelliana perché ci sono diversi personaggi in cerca d'autore ma l'unico autore nel caso è lo Zar.

Quello che colpisce è la sfacciataggine di certe posizioni. Ieri Putin ha sentenziato: "Forze occidentali in Ucraina saranno obiettivi legittimi da distruggere" senza spiegare se il veto riguarda l'attuale fase di guerra oppure anche una possibile funzione di garanzia prospettata dai cosiddetti paesi "volenterosi" qualora si arrivasse ad una pace.

Insomma, lo Zar continua a respingere l'idea che soldati di paesi Nato possano essere presenti ai confini della Russia dopo il conflitto. Ne fa una questione di principio e considera una simile eventualità foriera di guai per il domani. Il punto, però, è che a guardare la cartina ci sono tre paesi che aderiscono alla Nato sulla linea di confine con la Russia - Finlandia, Lituania e Lettonia - che forse non sono state attaccati proprio perché membri dell'Alleanza Atlantica. L'Ucraina, invece, nel ruolo di pecorella indifesa è stata oggetto di tre guerre in venti anni da parte dell'orso russo malgrado siano stati firmati quattro trattati (uno a Budapest, uno a Kiev e due a Minsk) che si sono rivelati carta straccia. Quindi se Zelensky chiede per evitare brutte sorprese in futuro di aderire alla Nato, o di avere un meccanismo di protezione simile a quello previsto dall'art.5 del Patto Atlantico, o ancora di avere truppe occidentali in territorio ucraino per sentirsi sicuro, ha i suoi buoni motivi.

Appunto, come in ogni mediazione non bisogna ascoltare solo le ragioni russe ma anche ucraine. E le prime non possono prevalere solo perché sono poste con il tono del "diktat". Il punto è che gli autocrati capiscono solo il linguaggio della forza e per loro anche la pace è solo un equilibrio basato sulla forza.

È un dato che i presidenti Usa, quelli che hanno fatto la Storia a cominciare Reagan, avevano ben presente. Una filosofia che gli europei hanno cominciato a capire dopo che ne hanno fatto le spese e che, invece, Donald Trump, che pure cita due volte al giorno gli insegnamenti del vecchio Ronald, sembra aver dimenticato.

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