La Confindustria ha ragione quando sostiene che con il Decreto Dignità si perderanno molti più posti di lavoro degli 8.000 all'anno stimati dal Ministero del Lavoro tramite l'Inps (a quanto pare, senza basi scientifiche).
Essi riguardano i contratti annuali che sono 80.000: con le nuove regole tali contratti non potranno superare i ventiquattro mesi, sia come primo contratto che come somma di rinnovi.
Ma è dubbio che l'aumento di pressione fiscale per il loro rinnovo, ogni volta pari allo 0,7 della retribuzione e il catenaccio sugli anni di rinnovo, facciano perdere solo 8.000 posti all'anno. Ossia soltanto il 10 per cento del totale. Soprattutto, la percentuale è destinata a salire, se ci sarà un rallentamento della crescita del prodotto interno lordo come sembra sia probabile, in base alle ultime previsioni.
Questo perché il numero di questi contratti è collegato alle previsioni sulla crescita economica. Per altro, i contratti a termine di durata annuale sono solo la punta dell'iceberg: quelli che durano meno di un anno sono 1.850.000. E 463.000, ovvero un quarto di essi, durano meno di tre mesi. I contratti inferiori all'anno, mediamente, vengono rinnovati una volta nei dodici mesi.
Il Decreto Dignità ha stabilito che tutti i contratti per essere rinnovati dovranno venire giustificati con una «causale».
Queste causali saranno fonte di liti e controversie giudiziarie, come insegna l'esperienza della clausola di «giusta causa» per i licenziamenti dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che ha dato luogo a un enorme contenzioso. Molte imprese per non impigliarsi nelle liti sulle «causali» preferiranno non rinnovare questi contratti.
Certo, potrebbero assumere un altro lavoratore con un altro contratto breve, aumentando il precariato che il Decreto Dignità dice di combattere.
Ma questo espediente comporta inevitabilmente costi burocratici, tempi morti, il rischio di sbagliare persona e l'onere di doverla istruire da capo sul lavoro temporaneo. L'obiettivo dichiarato del vetero sindacalismo nella lotta contro i contratti a termine è quello di trasformarli in contratti a tempo indeterminato. Ma è assurdo pensare che sia «fisiologico» convertire i contratti inferiori all'anno, che riguardano lavori temporanei, in posti fissi. In Italia i contratti a termine non sono patologici, essendo circa il 15 per cento contro lo 85 per cento di contratti a tempo indeterminato: come in Francia e in Germania.
La lotta del Decreto Dignità contro i contratti a termine crea disoccupazione perché è una lotta contro l'economia di mercato.
I contratti con il posto fisso non aumentano ponendo ostacoli a quelli a termine, ma riducendo il carico fiscale sul lavoro, stabilendo la contrattazione regionale e aziendale in base al costo della vita e alla produttività e riducendo lo spread che le nostre imprese debbono pagare per i tassi di interesse
bancari. Questo a sua volta, dipende dallo spread del debito pubblico, determinato dall'incertezza sulla politica del bilancio, che accresce il rischio dell'investimento in Italia.Questi «innovatori» se ne facciano una ragione.
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