
La storia si chiude, almeno per ora, nel caveau della Banca d'Italia. I preziosi gioielli della Corona, consegnati nel giugno del 1946 all'indomani della nascita della Repubblica, non torneranno nelle mani dei Savoia. Lo ha stabilito il Tribunale civile di Roma, respingendo la richiesta degli eredi di Umberto II che ne rivendicavano la proprietà. Per i giudici si tratta di beni «di dotazione della Corona», legati alla funzione regale e non all'eredità familiare. Tradotto: non erano gioielli personali, ma simboli del potere monarchico e quindi oggi spettano allo Stato.
Una vicenda che affonda le sue radici nella fine della monarchia italiana, quando re Umberto II, dopo la sconfitta al referendum del 2 giugno 1946, lasciò l'Italia. Tre giorni dopo, il 5 giugno, il ministro della Real Casa Falcone Lucifero depositò presso la Banca d'Italia un cofanetto misterioso, sigillato e rivestito in pelle. Conteneva secondo l'inventario stilato trent'anni dopo dalla Procura di Roma 6.732 brillanti, 2.000 perle, diademi, spille e collier. Tra questi un raro diamante rosa montato su una spilla a forma di fiocco e il gran diadema indossato dalla regina Margherita e poi dalle successive reali consorti Elena e Maria José. Un vero tesoro. Il valore di stima, affidato dalla Procura di Roma alla maison Bulgari nel 1976, ammonta a circa 20 milioni di euro attuali. Le quotazioni di gioielli reali nelle aste Sotheby's applicate ai beni inventariati portano l'ammontare addirittura a 300 milioni di euro.
La causa era stata intentata nel 2022 da Vittorio Emanuele di Savoia e dalle sorelle Maria Pia, Maria Beatrice e Maria Gabriella, a seguito di una richiesta formale del 2021 a cui Bankitalia, allora guidata da Ignazio Visco (e oggi da Fabio Panetta), aveva risposto picche. Fino ad allora avevano evitato di adire le vie legali per non attirare antipatie alla famiglia reale. Il Tribunale ha respinto anche l'ipotesi ventilata dagli avvocati dei Savoia di un vizio costituzionale, che avrebbe dovuto essere valutato dalla Consulta o, addirittura, dalla Corte di Giustizia europea.
La sentenza segna un punto fermo su una disputa che per decenni è rimasta in una zona grigia, tra diritto, storia e sentimento. Il verbale di deposito del 1946 parlava genericamente di «gioie di dotazione della Corona del Regno d'Italia», lasciando aperti margini di interpretazione. Ma per i giudici non ci sono dubbi: non è invocabile nessun diritto ereditario da parte degli ex reali. La XIII disposizione transitoria della Costituzione parla chiaro: «I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
La famiglia Savoia, tuttavia, non ha un'opinione unanime. Aimone Savoia-Aosta ha bollato la richiesta dei cugini come «senza senso» in quanto è la Costituzione stessa a prevedere la confisca. Di tutt'altro avviso Emanuele Filiberto, principe ereditario, secondo cui quei monili appartenevano al re come persona, e non come istituzione. «Una parte era frutto di regali personali e andrebbero restituiti», ha ribadito più volte pur dichiarandosi favorevole alla loro esposizione.
Eppure, tra le pieghe di questa storia, c'è spazio per un'altra domanda che molti si pongono: perché quei gioielli non sono mai stati esposti al pubblico? Da 79 anni giacciono nei sotterranei di Via Nazionale, invisibili Come accade per i gioielli della Corona britannica, potrebbero diventare un patrimonio da valorizzare in un'esposizione permanente, magari in un museo della Repubblica.
A pensarla così è anche Olina Capolino, ex avvocato capo della Banca d'Italia, che ha seguito il caso per anni: «È la giusta conclusione di una vicenda delicata. Ora spero, da cittadina, che quei gioielli vengano finalmente esposti».
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