«Non chiamatelo Papeete 2, per favore. La Lega era al 34% e voleva capitalizzare il consenso andando ad elezioni anticipate. Noi stiamo solo ponendo questioni serie». Anna Bilotti, parlamentare al primo mandato, consegna al Giornale, tra i corridoi di Montecitorio, il proprio sfogo. È da pochi minuti terminata la riunione del Consiglio nazionale del M5S: nessuna decisione è presa. L'organo di vertice del Movimento sarà aggiornato in serata per sciogliere il nodo. I Cinque stelle tengono sulla graticola il governo Draghi. L'astensione sul voto al Decreto aiuti, chiamato all'ultimo passaggio in Senato, aprirebbe la strada alle dimissioni del premier. Tra i gruppi di Camera e Senato, si caricano i cannoni per spaventare Draghi. Il leader Giuseppe Conte impone il silenzio. A Montecitorio prevale la linea dura. Nel bel mezzo delle trattative piomba il «fattore soldi». Se la legislatura si interrompesse oggi, i parlamentari, per aver diritto alla pensione, dovrebbero riscattare (di tasca propria) 10 mesi di contributi. Il calcolo è veloce: si tratta di una somma pari a 35mila euro che ogni parlamentare grillino dovrebbe versare allo Stato. Il danno (economico) oltre la beffa di andare a casa con 10 mesi di anticipo. Se invece la legislatura si interrompesse a settembre la pensione sarebbe salva. Senza alcun esborso di tasca propria. Ecco, dunque, che l'obiettivo di Conte sarebbe quello di arrivare a settembre prima di staccare la spina. Per consentire alle «maschere grilline» di portare a casa la pensione. Intanto però, i Cinque stelle fanno gli spavaldi: «Abbiamo ascoltato ieri sera (martedì) la conferenza del presidente Draghi. Ha fatto l'apertura sul salario minimo. Nulla di concreto. Siamo stanchi di esser presi in giro» - fa notare un altro parlamentare che si aggira tra buvette e poltroncine della sala lettura in Transatlantico. Traboccano di rabbia quando si tocca il nervo scoperto del reddito di cittadinanza, altro terreno di scontro tra il Movimento e l'esecutivo. «Ieri sera ho ricevuto la telefonata di una signora disabile a cui è stato revocato il reddito. Cosa dobbiamo rispondere?» - si chiede la deputata grillina Bilotti. Molto attivo tra i «pontieri» Stefano Buffagni che fa la spola tra Montecitorio e «casa Conte». Nel pomeriggio si intravede Gilda Sportiello, una fedelissima del presidente della Camera Roberto Fico. È annoverata tra i falchi, non distoglie un attimo gli occhi dal cellulare. È schierata per la linea dura. Sta preparando il terreno in vista dell'assemblea congiunta che si terrà in serata. Carica a pallettoni i colleghi. Un altro bluff. A Montecitorio la maggioranza (a parole) è per lo strappo. L'unica voce fuori dal coro arriva dal parlamentare Francesco Berti, che ha già votato in dissenso al gruppo sul Dl Aiuti e che ieri ha annunciato l'addio al M5S. Anche al Senato non si vuole la resa. Linea confermata dalle prime votazioni in commissione al Senato: il M5S si astiene in tutti i passaggi. I riflettori ora sono puntati su Palazzo Madama. I senatori minacciano di sfilarsi se dovesse arrivare l'ordine di votare il Decreto Aiuti. Si teme sulla tenuta del gruppo. Al Senato, infatti, dove i 5 Stelle contano al momento 62 eletti, siedono i grillini più battaglieri, quelli che vedono la permanenza nel governo Draghi come fumo negli occhi. Una quarantina sarebbero infatti contrari a votare la fiducia, di questi una decina barricadero sarebbero addirittura pronti alla spallata, ovvero a votare contro. Difficile ora convincere i senatori ad andare oltre, votando il decreto che ha già visto l'astensione dei 5 Stelle in Consiglio dei ministri per la contestata norma sull'inceneritore a Roma. Con il passare delle ore la forbice tra i parlamentari (contrari ad una retromarcia) e i governisti (che spingono per il Sì al Decreto aiuti) si allarga. Deputati e senatori sono letteralmente tempestati di telefonate da parte di ministri e sottosegretari grillini che non vogliono lo strappo. L'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si sfila. Bonafede cerca una via d'uscita al Csm nella quota riservata ai laici. Se salta la maggioranza, addio poltrona al Csm. L'ex Guardasigilli valuta il salto con Di Maio. Ma il rischio è troppo alto. È in preda a una crisi identità.
Carlo Sibilia, sottosegretario all'Interno, riunisce la sua corrente (un tempo si chiamava Parole Guerriere) e impone il Sì alla fiducia. In molti si ribellano e aspettano l'ordine contiano. Nel Movimento sembra scattata l'ora del «liberi tutti». La vigilia della fine.
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