La Russia fu caldo e fango. Gli abitanti delle campagne sovietiche temevano gli italiani perché i comunisti raccontavano che gli italiani mangiavano i bambini. L'offensiva sul fronte del Don fu l'ultima guerra romantica.
Ricordano quanto alcuni di noi non hanno neppure mai percepito Francesco Belloni, 99 anni, Giancarlo Cioffi, 95 anni, Pio Bruni, 97 anni, protagonisti di una delle vittorie della Seconda Guerra Mondiale, la battaglia di Isbuscenskij, 24 agosto 1942, pagina iconica della cavalleria italiana partita con il Csir, il Corpo di spedizione italiana in Russia.
Ogni martedì i tre «guerrieri» si trovano in una stanza della caserma XXIV Maggio a Milano, proprio di fronte alla Montebello, da cui Cioffi e Bruni partirono il 6 aprile 1941 con il Reggimento Savoia Cavalleria. Prima destinazione: Jugoslavia. In seguito, la cavalcata fino ai fiumi Dniepr e Don tra il 24 luglio 1941 e il settembre 1942. «Savoia Cavalleria» è ancora scritto sulla targa di una stanza milanese, dove elmi e agende di comandanti giaciono a ricordare i 650 uomini che fecero mille chilometri.
Tre di loro si commuovono al nome del generale Giovannni Messe «il migliore. Aveva intuito l'arma nuova: la velocità degli spostamenti, tanto che in Russia venne creato lo Squadrone Fantasma. Si muoveva fulmineo in modo da far credere al nemico che noi fossimo tanti, ma tanti» dice Bruni, cavaliere dello Squadrone. Può esserci romanticismo nella guerra? «Sì, quando la battaglia è tra soldato e soldato, secondo le regole dell'onore. Prima regola, il nemico non si uccide, si mette fuori combattimento. La Seconda Guerra Mondiale ha falsato tutto questo con i bombardamenti vigliacchi sui civili, che avevano due scopi: massacrare i popoli, ma soprattutto indebolire il coraggio delle truppe al fronte», narra Cioffi con le mani sulla cartina dove segna la strategia di Isbuscenskij.
Per tutti la Russia è freddo, cadaveri e gavette di ghiaccio, invece esiste una Russia sudata. «L'inverno giunse a ottobre. Il 24 gennaio 1942 il termometro scese a 47 gradi sotto zero, ma all'inizio la campagna patì un caldo atroce e fango profondo anche 20 centimetri, che solo i cavalli potevano attraversare. Col freddo abbiamo iniziato a ripararci nelle case dei contadini. Ci ospitavano volentieri. Quando arrivavamo noi potevano tirare fuori le icone religiose a cui erano rimasti legati. La popolazione delle campagne non aveva un'ideologia ferrea come quella delle città» spiega Bruni. La prima scintilla di Isbuscenskij si accende nella notte del 23 agosto, mentre arriva il rancio, la biada dei cavalli, la posta, Il popolo d'Italia. L'ordine è: non accendere una sola sigaretta. «Al mattino del 24, molto presto, il colonnello Bettoni manda una pattuglia per verificare se la quota 213,5 fosse libera dai russi. Non lo era». Le mitragliatrici, i primi morti. Paura? «Mai! Quando hai nel cuore la parola Patria, paura mai. Oggi sentiamo parlare di Nazione, di Paese, ma cosa sono queste parole?».
Isis.
Cosa pensate di questa lotta? «È brutta perché per ragioni anagrafiche non possiamo farla». Sarebbe da farsi? «Certo. Visitiamo le caserme, i giovani soldati italiani hanno il nostro entusiasmo del 1942. L'ardore di vivere e partire per proteggere la Patria».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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