Ieri l'omertà, oggi un coro: "Juncker, perfetto innocente"

Gli euroburocrati sapevano del paradiso fiscale in Lussemburgo ma tacevano tutti. E ora che parlano, difendono il suo artefice

Ieri l'omertà, oggi un coro: "Juncker, perfetto innocente"

Tutti sapevano, ma tutti tacevano. Tutti in fondo speravano che il peccato originale del presidente Jean Claude Juncker rimanesse celato nel limbo avvolgente e protettivo di Bruxelles. Un'illusione pretestuosa e assai singolare. Anche perché nei diciotto anni da primo ministro del Lussemburgo Juncker si è consacrato a un'unica missione, ovvero a studiar leggi e decreti capaci di trasformare il minuscolo granducato nel più grande paradiso fiscale d'Europa. Leggi e decreti non certo clandestini visto che da quello sgabuzzino d'Europa, grande la metà della provincia di Roma, son transitati non solo i capitali delle più potenti multinazionali, ma anche quelli di personaggi come il defunto dittatore nord coreano Kim Jong Il Sun.

La fama di quel gran architetto dell'elusione e del riciclaggio chiamato Jean Claude Juncker da tempo, insomma, travalicava, gli angusti confini lussemburghesi e le segrete stanze europee. Ne parlavano i politici di Bruxelles, come quelli di casa nostra. Ci sbattevano il naso i segugi anti evasione del vecchio e nuovo Continente. Ne tessevano le lodi finanzieri e magnati di tutto il pianeta. E ne scrivevano i giornalisti. Non a caso il 29 giugno, non appena ufficializzata la sua nomina a presidente della Commissione, Il Giornale ricordò come il problema di quel «sempreverde» della politica europea e lussemburghese non fosse il fiato alcolico, ma il passato d'impareggiabile artefice dell'elusione fiscale. E invece oggi tutti a stupirsi. Tutti a far capire in un intonato quanto patetico coro «blustellato» che il presidente della Commissione Europea c'entra poco. O forse nulla.

È stato primo ministro del Lussemburgo dal 1998 al 2013. E per 11 anni la sua carica di premier si è addirittura sovrapposta a quella di ministro delle Finanze ricoperta ininterrottamente nel ventennio 1989 -2009. Ma che conterà mai? Nulla ovviamente perché, come spiega il gran burocrate olandese Jeroen Dijsselbloem, attuale presidente dell'Eurogruppo, le magagne finanziarie architettate in veste d'indiscusso signore del Lussemburgo non vanno rinfacciate al povero Juncker, bensì agli attuali governanti del Granducato. «È il governo attuale del Lussemburgo che ha la responsabilità per le politiche governative, anche per il passato... a Juncker - puntualizza con rara faccia di bronzo Dijsselbloem - ci si deve rivolgere come presidente della Commissione. Non credo abbia fatto niente di male in passato...».

Su questa linea di lucida e tetragona euro-ipocrisia si allineano, deferenti, anche i politici nostrani. Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, dopo aver giurato sull'innocenza di Juncker, arriva perfino a imbrogliar le carte fantasticando di un nuovo clima di «trasparenza europea». Come se la storia delle agevolazioni fiscali concesse alle multinazionali fosse emersa non da un'indagine giornalistica, ma grazie al lavoro di qualche segugio di Bruxelles. E persino Matteo Renzi - evidentemente «convinto» a pentirsi dopo aver dato del burocrate a Juncker e ai suoi commissari, riguadagna le linee dell'euroconformismo sottolineando di non voler scender in «battaglia» contro il presidente della Commissione europea. E pur guardandosi bene dal pronunciare il nome di Juncker anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si sente in dovere di respingere le «rappresentazioni meschine, malevoli e riduttive della costruzione europea».

Insomma mentre Juncker tace, barcolla ma non molla, i pretoriani dell'Unione Europea corrono a sostenerlo.

Animati non dalla certezza della sua innocenza, ma dalla pragmatica convinzione che una sua caduta rischierebbe d'innescare la scossa finale. Quella capace di travolgere per sempre le mura di una sempre più traballante fortezza europea.

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