"Illegali le sanzioni Usa contro di noi" L'Iran fa appello alla Giustizia dell'Aja

Teheran: «Chi sono gli americani per decidere per tutti?». E la Cina si offre

"Illegali le sanzioni Usa contro di noi" L'Iran fa appello alla Giustizia dell'Aja

Luigi Guelpa

Dopo appena tre settimane l'Iran torna a bussare alla porta della Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Se lo scorso 25 giugno Teheran si era rivolta infatti all'organo giudiziario delle Nazioni Unite per esortare gli Stati Uniti a sbloccare i fondi della Banca centrale iraniana per l'importo di 2 miliardi di dollari (denaro reclamato dagli Usa per i parenti dei marines morti nel 1983 nell'esplosione della caserma americana a Beirut), ieri il governo di Rouhani ha presentato una denuncia per chiedere che vengano risarciti i danni causati dalla «reimposizione illegale di sanzioni».

È la risposta di Teheran dopo che gli Usa, uscendo dall'accordo internazionale sul nucleare iraniano, avevano imposto limitazioni bancarie collegate a tutte le transazioni finanziarie in cui è coinvolta la Banca Centrale iraniana (Cbi) e che ricadono quindi su tutti quei Paesi che acquistano petrolio, bene il cui commercio passa obbligatoriamente attraverso la Cbi. La notizia è stata resa nota dal ministro degli Esteri Javad Zarif che in conferenza stampa ha usato parole di fuoco, domandandosi «chi sono gli americani per condizionare i destini dell'Iran e del mondo? Il tempo per queste azioni è finito. Non si può più accettare che gli Usa decidano per gli altri».

La palla è stata colta al balzo dalla Cina che ha ribadito la volontà di cooperare con Teheran e di aumentare l'acquisto del petrolio. Pechino vuole portare il rapporto con l'Iran a un livello superiore sperando di ricostruire le antiche rotte commerciali della Via della Seta e promettendo scambi commerciali da 600 miliardi di dollari nel giro di dieci anni.

L'imposizione di misure punitive di carattere finanziario è una strategia utilizzata in larga misura da Washington, che al momento impone limitazioni a ventuno Paesi. Il boom nasce con lo scoppio delle crisi in Ucraina e Corea del Nord. Nel primo caso la Russia, colpevole di aver annesso la Crimea nel marzo 2014 e di aver fomentato la ribellione della regione orientale del Donbass, è stata sottoposta a sanzioni, nelle quali sono stati ricompresi singoli oligarchi russi (a cui è impedito l'ingresso in Usa). La Corea del Nord, sotto embargo da ben 68 anni, si è vista bloccare il 90% delle sue importazioni di petrolio, tutto il commercio estero, e ogni legame finanziario con il mondo esterno.

Si tratta di un sistema spesso utilizzato parallelamente allo svolgimento di negoziati diplomatici tradizionali in fase di stallo. Con il Venezuela non ci sono invece trattative in corso: il pugno di ferro di Trump contro il regime di Maduro si è concretizzato vietando ai cittadini e alle banche statunitensi di comprare e vendere obbligazioni emesse dal governo di Caracas e dalla compagnia petrolifera statale. Mentre le misure restrittive contro il Sudan (eredità Clinton), considerato centro di addestramento di Al Qaeda, riguardano le attività commerciali.

L'embargo degli Usa tocca anche nazioni difficili persino da collocare sulla cartina geografica: è il caso del Burundi (limitazione dei viaggi e congelamento dei beni di quattro politici locali) e Guinea Bissau (sospensione di aiuti finanziari). Poi ci sono i casi che hanno fatto storia, e persino letteratura, come «el bloqueo» nei confronti di Cuba, in atto dal 1960.

Non va peraltro dimenticato che Washington applica sanzioni non soltanto contro Paesi, ma anche nei confronti di individui e società che forniscono beni e servizi a soggetti inseriti nella black list della Casa Bianca.

Nel giugno 2014 ad esempio la banca francese Bnp Paribas fu costretta a pagare 9 miliardi di dollari per aver gestito (consapevolmente) circa 30 miliardi di dollari di transazioni che violavano le sanzioni Usa nei confronti di Iran e Sudan.

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