Ilva, trucco del governo per accelerare la vendita

Cessione entro il 30 giugno. In Stabilità altri 300 milioni per il percorso di transizione

Veduta esterna dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto
Veduta esterna dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto

Roma Un decreto legge per mettere una toppa al buco dell'Ilva. È quello che il governo Renzi ieri ha approvato in Consiglio dei ministri per cercare di raddrizzare una situazione diventata ormai insostenibile per il principale polo siderurgico italiano, quello di Taranto.Il decreto emanato dall'esecutivo, il nono in ordine cronologico, «fissa al 30 giugno 2016 il termine per il completamento del trasferimento a terzi che consenta di dare un futuro stabile, definitivo, di prospettiva industriale e risanamento ambientale dell'Ilva», ha spiegato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti aggiungendo che è stato previsto «uno stanziamento di 300 milioni per il percorso di transizione».

Fissata al 31 dicembre 2016, e quindi prorogata di quattro mesi, la validità dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che consente l'operatività ai complessi di Cornigliano, Novi Ligure e, soprattutto, Taranto ove la situazione è particolarmente critica.In buona sostanza, gli acquirenti potenzialmente interessati alle acciaierie (l'anno scorso si erano fatti avanti in cordata i gruppi Arcelor Mittal e Marcegaglia, ndr) non troveranno sulla propria strada ostacoli burocratici, ma dovranno farsi carico di un processo di risanamento lungo e costoso. Processo che non dovrebbe essere gravato dai debiti della gestione commissariale in quanto l'intenzione del governo è sempre stata quello di procedere a uno scorporo delle attività industriali in modo tale da favorire la salvaguardia dei posti di lavoro (a Taranto sono 14mila compreso l'indotto).

La situazione si è infatti incancrenita. L'Ilva di Taranto lavora al 50% della capacità produttiva, perde 50 milioni al mese e il rosso previsto per il 2015 dai tre commissari Gnudi, Laghi e Carrubba si aggira intorno ai 500 milioni di euro. Il governo, con un eccesso di ottimismo, ha anticipato 400 milioni concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare con il decreto salva-Ilva dello scorso febbraio, mentre la Stabilità, fino a ieri, ne assicurava altri 800 attraverso un fondo di garanzia. Il totale è di 1,2 miliardi, equivalenti alle giacenze dei conti svizzeri della famiglia Riva (i proprietari, ndr) posti sotto sequestro. Il Tribunale federale di Bellinzona, però, ha bloccato l'escussione per non creare un danno patrimoniale in quanto non c'è ancora una sentenza che condanni la proprietà a un risarcimento.Il decreto emanato ieri dovrebbe aver rimediato al pasticcio, sebbene tardivamente.

«Chi rileverà il gruppo dovrà rimborsare allo Stato l'importo erogato e non ancora restituito, maggiorato degli interessi», ha spiegato Palazzo Chigi evidenziando come la natura del prestito concesso a Ilva sia quella di un finanziamento-ponte e dunque non passibile di procedura di infrazione per aiuti di Stato da parte dell'Ue, da tempo alle calcagna del governo. L'aggiudicatario, ha precisato il ministro dello Sviluppo Federica Guidi, «verrà scelto attraverso una procedura a evidenza pubblica e verrà valutato attraverso la bontà del piano industriale e della proposta ambientale».

Se l'esecutivo Renzi non avesse dato per scontato il sequestro definitivo dei beni dei Riva, che non hanno commesso alcun illecito, e avesse favorito la separazione del contenzioso dal complesso industriale, forse non avrebbe dovuto architettare l'ennesimo stratagemma.

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