Così diversi e così uguali, il Trump originale e il «Trump britannico» Boris Johnson (espressione amata dal titolare) si incontreranno oggi a Biarritz per il primo faccia-a-faccia da quando il successore di Theresa May si è insediato a Downing Street un mese fa. Due elefanti nella cristalleria del G7, su cui tutti gli occhi sono puntati. Entrambi star dell'evento e insieme spine nel fianco di un Occidente e di un'Europa che faticano a trovare sintesi e compromessi con i propri alleati americani e inglesi su alcune questioni scottanti. The Donald fa impazzire il commercio internazionale con i dazi e la guerra alla Cina che rischiano di trascinare l'economia globale verso una nuova recessione, Johnson al suo debutto sul palcoscenico mondiale fa tremare l'Unione europea con la sua Brexit a tutti i costi.
Non a caso, a vertice non ancora iniziato, sono stati loro i due leader a ispirare e alimentare i primi nervosismi. Prima Trump, minacciando dazi sui vini francesi come ritorsione per la tassa sui colossi americani del web, annunciata da Parigi. Poi Johnson che ha ribadito di volere un'intesa con la Ue ma si è detto pronto a vestire i panni di «Mister No Deal» se Bruxelles non si sbarazzerà del backstop per proteggere il confine irlandese. Tusk lo aveva appena punzecchiato in conferenza stampa: «Spero ancora che Johnson non passi alla storia come il Signor Niente accordo». I due si vedranno anche loro oggi per la prima volta ma già si gioca allo scaricabarile sulle responsabilità di un imminente divorzio non consensuale.
È in questo intreccio fra commercio e politica che i due elefanti della destra statunitense e britannica, Trump e Johnson, potrebbero trovare insieme la sintesi e la convergenza di interessi che sembrano non trovare più con Bruxelles. La data del 31 ottobre è vicinissima - mancano 67 giorni - e i colloqui di oggi saranno l'assaggio per una possibile «ambiziosa» intesa di libero scambio tra Stati Uniti e Gran Bretagna. The Donald lo aveva previsto già a giugno nella sua visita di Stato a Londra: «Faremo accordi formidabili». Per Boris la partita è cruciale, sia per far leva sulla Ue e giocare ancora le ultime carte per un divorzio concertato, sia se - come sembra - l'addio ci sarà ma sarà duro e netto (Tusk ha specificato che non ci saranno mini-intese per alleggerire il No Deal). Donald e Boris si sono parlati in via ufficiale, al telefono, quattro volte in un mese, l'ultima venerdì. Oggi l'incontro si svolgerà al mattino e dovrebbe durare circa un'ora. L'inviato trumpiano, John Bolton, ha già fatto sapere che mini-accordi tra Londra e Washington potrebbero essere facilmente raggiunti nel settore dell'automobile (caro ai tedeschi) e in quello manifatturiero. Johnson punta a un'intesa più ampia e intanto, con lo stesso obiettivo, parlerà con Canada, India, Australia, Giappone ed Egitto nei bilaterali del G7. Eppure sui dazi alla Cina, il premier inglese si dice «molto preoccupato»: «Non sono la via da seguire», «Voglio vedere un'apertura del commercio globale, voglio vedere una riduzione delle tensioni e voglio vedere scendere le tariffe» e promette che ne parlerà con il leader Usa. Così Boris dimostra di essere un nazionalista liberale più che un protezionista, in questo e altro diverso dal presidente Usa, al di là della personalità eccentrica, dei capelli biondi e di quel «populismo» di destra per cui qualcuno lo ha ribattezzato il «Trump britannico» (espressione piaciuta e usata dall'originale). I due «biondi» della destra occidentale hanno posizioni divergenti sulla Russia (che Trump rivorrebbe nel gruppo dei Grandi), sull'Iran (Londra vuole tenere in vita l'accordo sul nucleare, nonostante le pressioni Usa) e sull'ambientalismo che con la crisi in Amazzonia è tornato di prepotenza sul tavolo («Una politica verde vuol dire posti di lavoro»; «c'è ampio spazio per l'occupazione nelle tecnologie verdi di ogni tipo», dice Boris).
È la prova che, comunque vada, e a differenza di quel che teme Macron, non necessariamente il Regno Unito rischia di trasformarsi in uno Stato vassallo degli Usa in caso di No Deal e che l'Ue ha ancora un disperato bisogno di Londra, specie ora che i Grandi sono divisi come non mai da quando tutto cominciò, 45 anni fa.
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