Prove tecniche di paralisi. Ovvero il più grande lockdown della storia. Ieri l'India si è bloccata per quattordici ore filate, dalle 7 alle 21, in quello che i media locali hanno definito il «coprifuoco del popolo». E che popolo: 1,36 miliardi e spiccioli di anime, il secondo Paese più affollato al mondo dopo la Cina, che secondo le stime dell'Onu nel 2027 diventerà il primo.
Più di un sesto del mondo si è spento per un giorno intero per testare la capacità del Paese di affrontare un blocco più esteso nel caso in cui il coronavirus dovesse dilagare anche nel subcontinente. La faccia ce l'ha messa il premier Narendra Modi, che per incoraggiare i connazionali alla domenica di totale pausa ha postato vari tweet con l'hashtag #jantacurfew. «Le misure che prendiamo ora ci aiuteranno nei tempi a venire. State a casa e state al sicuro», si legge in uno.
L'India - che già da qualche settimana ha chiuso i confini, sospeso l'emissione di visti e vietato l'ingresso a chi proviene dai Paesi più colpiti dall'epidemia - ieri ha bloccato tutti i treni della sterminata rete ferroviaria, che ogni giorno trasporta venti milioni di persone (molti treni saranno fermi fino a 31 marzo), ha sospeso tutti i servizi non essenziali e ha imposto a tutti di restare a casa. I social media si sono inzeppati di fotografie di luoghi iconici del Paese, dal Taj Mahal in giù, svuotati dal lockdown. Come in Italia alle 17, in un flash mob oceanico, gli indiani si sono affacciati da balconi, terrazze e finestre «per esprimere gratitudine a quanti stanno lavorando ventiquattro ore su ventiquattro perché la nazione si liberi dal Covid-19», come ha scritto Modi. E come in Italia e negli altri Paesi semiparalizzati dal virus, alla vigilia del blocco gli indiani hanno affollato gli alimentari e i supermercati per fare rifornimento di riso e farina e in molti hanno preso d'assalto gli ultimi treni per fare ritorno ai loro luoghi d'origine.
Insomma, un Paese in allarme preventivo. Già, perché - mistero gaudioso in un Paese già di suo misterioso - all'India finora il coronavirus ha fatto il solletico: 360 contagi e sette morti fino a ieri, casi per la gran parte attribuibili alla presenza di viaggiaotri giunti da Paesi a rischio, come l'Italia. Davvero quasi nulla in un Paese che ha ventitré volte gli abitanti dell'Italia e che condivide 3500 chilometri di confine terrestre con la Cina, da cui tutto ha avuto origine. C'è chi tira in ballo la fortuna, la casualità, e c'è chi invece pensa che il fenomeno sia stato semplicemente sottovalutato a causa dello scarso numero di tamponi effettuati. Di certo se qualcosa andasse storto nella più grande democrazia al mondo gli effetti sarebbero numericamente devastanti. Le città indiane sono megalopoli affollate e con standard igienici molto scadenti rispetto ai nostri. E c'è anche l'atavica abitudine tutta indiana di vivere in grande contiguità con il prossimo, in spazi ristretti e spesso sporchi; ciò che sta accadendo tuttora a Delhi o Mumbai malgrado il governo abbia già da giorni chiuso i luoghi di aggregazione e vietato gli assembramenti. Non solo: il sistema sanitario pubblico indiano è decisamente arretrato, con attrezzature scarse e obsolete, e i ricchi si fanno curare nelle strutture private, che ovviamente non potrebbero sopperire alle carenze dello Stato. E infine c'è il fatto che molti indiani tornati da Paesi «rossi», come riferiscono i media, si sono rifiutati di sottostare alla quarantena e in qualche caso sono fuggiti dagli ospedali, trasformandosi in potenziali untori.
Non c'è quindi da sorprendersi leggendo la previsione dell'epidemiologo Ramanan Laxminarayan,
direttore del Centro di studio delle dinamiche economiche e politiche delle malattie di Delhi, secondo cui lo sbarco in India del virus potrebbe provocare la morte di 300 milioni di persone. Il più grande olocausto della storia.
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