C'è chi, come Marcello Dell'Utri, resta in carcere. E chi invece va a casa. Stesso contesto e stessa malattia, ma due trattamenti diversi. Linea dura per l'ex parlamentare, che pure è accerchiato da numerose patologie, approccio soft per un altro detenuto bloccato a Rebibbia, che ha la fortuna di avere un cognome ignoto all'opinione pubblica. Questo nel giorno in cui il presidente della Camera Laura Boldrini dice di non «voler entrare nel merito della vicenda Dell'Utri» ma auspica «un miglioramento delle condizioni nelle carceri» e mentre l'ex senatore riceve la visita, in carcere, dell'ex presidente del Senato Renato Schifani: «Ha fiducia in Strasburgo ma è preoccupato per le figlie», ha detto il senatore azzurro invitando Dell'Utri a interrompere lo sciopero del cibo e delle cure.
Certo, ogni storia è un caso a sé, ma è difficile sfuggire all'idea che il tribunale di Sorveglianza della Capitale abbia preso due decisioni contraddittorie. Il detenuto in questione è affetto da un carcinoma della prostata, esattamente lo stesso tumore che ha colpito Dell'Utri. Che, fra parentesi, ha pure una grave cardiopatia, il diabete, l'ipertensione arteriosa. Insomma, senza voler stilare classifiche penose, forse il bibliofilo palermitano sta pure peggio dell'illustre sconosciuto la cui vicenda viene affrontata dal tribunale di Sorveglianza qualche mese prima. Comunque, tutti e due devono sottoporsi a radioterapia.
Un percorso impegnativo per il paziente, ma un impegno non da poco anche per l'apparato giudiziario, perennemente a corto di uomini e mezzi. I giudici non si nascondono dietro un dito, ma esaminano scrupolosamente i dettagli. Mostrando, davanti al signore dal nome ordinario, una encomiabile sensibilità. L'uomo «dovrà essere convocato, per iniziare il trattamento radioterapico, da lunedì a venerdì, con una durata di 30 minuti ad applicazione e con la durata complessiva del trattamento pari a 7-8 settimane». Più o meno lo stesso programma previsto per il fondatore di Publitalia. E qui le strade si separano. «Secondo quanto specificato dal sanitario responsabile dell'unita' operativa di Casa di reclusione - si legge nel provvedimento della scorsa estate - la cura cosi studiata si presta in astratto ad essere praticata in regime di detenzione, occorrendo prevedere traduzioni giornaliere certe per un lungo periodo». Dunque, in teoria, si può fare. Ma c'è un ma, drammatico e concreto, che blocca l'operazione. «Tuttavia è stato paventato il rischio che il Nucleo traduzione, tenuto conto dell'imponente impegno richiesto e della possibile carenza di personale, potrebbe non garantire tutti i giorni il trasferimento del detenuto presso il nosocomio», in questo caso il San Camillo di Roma, «con il rischio di vanificare l' effetto della radioterapia».
Tutto si può fare, ma il programma richiede continuità e i magistrati, almeno in questo caso, vogliono andare sul sicuro. «Ritenuto - prosegue il provvedimento - che le condizioni di infermità fisica in cui versa il detenuto, sono tali da esporlo, in mancanza di cure adeguate, a serio pericolo di vita o comunque ad altre rilevanti conseguenze dannose» decide di far uscire il malato da Rebibbia. Concedendogli per 5 mesi la detenzione domiciliare e la possibilità di andare al San Camillo.
Proprio quel che a dicembre verrà negato a Dell'Utri,
spiegando che la radioterapia, nel suo caso al Pertini, può essere effettuata anche da detenuto. Per lui non valgono le obiezioni sollevate qualche mese prima dagli stessi giudici. Mistero fra i misteri della giustizia italiana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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