
Gentile Direttore Feltri,
sono inorridito per quanto è successo a Racale, in provincia di Lecce, dove un ventunenne ha ucciso la madre a colpi di ascia. Il motivo? La donna lo aveva rimproverato perché era entrato in casa senza salutare. A quel punto il ragazzo è salito al piano di sopra, ha preso l'arma ed è sceso a fare a pezzi la donna che lo ha partorito e allevato. Quello che mi stupisce di più? Che, come al solito, tutti parlino di ragazzo tranquillo, famiglia perbene, serena.
Com'è possibile?
Gino Ventura
Caro Gino,
è giusto chiederselo. Perché a furia di definirli ragazzi tranquilli, stiamo scivolando nella più pericolosa delle autoassoluzioni collettive. Viviamo in una società dove il rimprovero è diventato un atto rivoluzionario, e chi lo esercita rischia la vita. A ogni fatto di sangue la dinamica si ripete: un richiamo, una parola scomoda, una richiesta di rispetto o di buon senso, e subito esplode una violenza sproporzionata, insensata, animalesca. Un tempo ci si arrabbiava, si sbatteva la porta, si borbottava. Oggi si impugna un coltello, un'ascia, una spranga. Fa paura questa intolleranza crescente verso l'autorità e verso i limiti. Ogni forma di richiamo, anche la più lieve, la più affettuosa, viene percepita come un affronto, un'umiliazione da vendicare. Come se dire a un figlio «saluta quando entri» fosse un atto di violenza. E invece è soltanto educazione, quel bene ormai diventato un lusso per pochi. Spaventa anche la crescente dimestichezza con cui i ragazzi girano armati di lame: a scuola, in spiaggia, in discoteca, come se vivessero in un film post-apocalittico in cui tutti sono nemici, e difendersi è un dovere costante. Ma questa non è forza. È paura malata. È debolezza che si maschera da aggressività. E sia chiaro: la debolezza non è una giustificazione. Non si ammazza una madre con un'ascia perché si è fragili.
«Era una famiglia tranquilla», si dice sempre. E forse il problema sta proprio lì, in quella tranquillità apparente che spesso è solo assenza di comunicazione, rimozione del conflitto, mutismo emotivo.
Insomma, siamo proprio sicuri che la tranquillità sia un valore assoluto?
La tranquillità può diventare il sudario del non detto, il coperchio su una pentola che ribolle. Perché quando le emozioni vengono soffocate anziché elaborate, prima o poi deflagrano. E il risultato è questo: un ragazzo che impugna un'arma e massacra la madre perché si è sentito «rimproverato». Ecco il dramma: oggi anche la frustrazione più banale diventa insopportabile. Non si accetta di essere corretti, contenuti, indirizzati. Il limite viene visto come un'ingiustizia da cancellare. E il rimprovero, che una volta educava, ora scatena la furia.
Il giovane di Racale, il quale, va detto, conservava un'ascia in camera come fosse un oggetto decorativo, avrebbe perfino scherzato, in passato, sull'idea di usarla. Eppure nessuno ha colto il segnale. Perché nel tempo dell'indifferenza, anche l'orrore si banalizza. Forse non è un caso che questa violenza cieca e familiare dilaghi proprio in un'epoca che ha messo al bando la figura dell'autorità. Genitori, insegnanti, educatori: tutti ridotti al silenzio per paura di ferire la sensibilità dei ragazzi.
Eppure educare non è mai stato un atto indolore. È porre confini. È insegnare a sopportare il no. È creare anticorpi contro la frustrazione. Oggi quei confini sono saltati. E l'unico confine che si riconosce è quello del sangue.