Cinque mesi dopo uno stop concordato con il nuovo presidente Ebrahim Raisi per consentirgli di formare un nuovo governo e di prendere le redini della situazione a Teheran, riprendono a Vienna le complesse trattative sul tema del nucleare iraniano. Ieri i delegati delle sei potenze firmatarie del Piano d'azione comune (in sigla Jcpoa) Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania sono tornati nella capitale austriaca per incontrare gli inviati di Teheran. Obiettivo dei colloqui è in realtà, in primo luogo, la loro stessa ripresa, non scontata e soggetta al tentativo degli iraniani di porre condizioni per la loro partecipazione: prima fra tutte il ritiro delle sanzioni che stanno letteralmente strangolando l'economia di Teheran. Il punto di partenza è difficilissimo: basti ricordare che nel 2018 l'allora presidente americano Donald Trump aveva deciso, con una mossa radicale e clamorosa, il ritiro puro e semplice degli Stati Uniti dai negoziati.
Trump, che è stato di gran lunga il presidente Usa più filoisraeliano della storia recente, non si era fatto un problema di esplicitare non solo la sua completa sfiducia nella credibilità della Repubblica islamica, ma anche la sua volontà di opporsi al suo crescente interventismo in Medio Oriente, così minaccioso nei confronti di Israele. Il punto più acuto del contrasto americano all'Iran sotto Trump è stato, come si ricorderà, lo spettacolare assassinio a Baghdad nel gennaio 2020 del brillante generale Suleimani, l'uomo cui faceva capo la strategia militare iraniana nella regione; ma non va dimenticato che ancora nel gennaio di quest'anno si temeva seriamente che Trump intendesse concludere letteralmente «col botto» la sua presidenza con un blitz militare sull'Iran. Joe Biden, successore di Trump alla Casa Bianca, aveva invece chiarito fin dalla campagna elettorale per le presidenziali di voler puntare a una ripresa dei negoziati con Teheran. Obiettivo reso meno facile non solo dall'arrivo dell'estremista Raisi alla presidenza, ma anche dall'intenzione trasparente degli israeliani di agire militarmente in proprio contro l'Iran (eventualmente anche in disaccordo con Biden) qualora ritenessero che gli ayatollah sfruttino prolungati negoziati per portare troppo pericolosamente avanti i loro preparativi di arsenale atomico.
A Vienna, come si notava all'inizio, l'Iran cercherà sicuramente di porre delle condizioni per la sua partecipazione: le sanzioni imposte dagli americani hanno fatto schizzare il tasso d'inflazione verso il 40%, ridotto a un decimo il valore del rial iraniano nei confronti del dollaro e fatto quasi dimezzare la produzione del petrolio. Raisi pretende garanzie che all'economia del suo Paese venga concesso ossigeno, perché l'Iran è sempre sull'orlo di una rivolta popolare. Al tempo stesso, però, non si può dire che l'Iran di oggi punti tutte le carte sul Jcpoa: la politica estera di Teheran rimane molto aggressiva, e la delegazione inviata a Vienna non pare intenzionata a concedere accordi supplementari.
In realtà, l'Iran conta molto sul sostegno dei suoi alleati russi e cinesi in funzione antiamericana, il che rende la partita viennese molto complessa.
E se gli europei sembrano credere che solo l'approccio diplomatico servirà a contenere le pericolose ambizioni nucleari iraniane, il giocatore decisivo Biden non ha ancora messo sul tavolo carte sufficientemente chiare.
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