Gli islamisti spengono le Primavere

A Beirut trionfo di Hezbollah. Timori per l'asse con gli ayatollah

Gli islamisti spengono le Primavere

Le primavere arabe avrebbero dovuto portare una ventata di entusiasmo democratico, dal Nord Africa al Medio Oriente, ma in realtà sta capitando esattamente il contrario. Alle elezioni di domenica in Tunisia e Libano non è andata a votare neppure la maggioranza della popolazione. In Egitto siamo tornati al voto bulgaro per il candidato presidente di fatto unico. Le imminenti parlamentari in Irak pongono forti dubbi sul percorso democratico del paese. In Turchia, il prossimo mese Recep Tayyip Erdogan punta a farsi nominare «sultano». La democrazia da alpeggi svizzeri è ancora ben lontana dal venir impiantata nei paesi islamici. Non si vedono file entusiaste alle urne di elettori neppure in un paese come la Tunisia, che è uscita con le ossa meno rotte degli altri dalla primavera araba diventata ben presto gelido inverno almeno dal punto di vista della sicurezza, situazione economica e tenuta democratica. Alle amministrative di domenica è andato alle urne solo 1 elettore su tre. Ed il risultato più che i laici ha premiato il partito islamico Ennhada, una specie di Fratellanza musulmana moderata. Non basta l'elezione, per la prima volta, di una donna a sindaco di Tunisi per cantare vittoria sulla democrazia come ha fatto Angelino Alfano, ministro degli Esteri. Souad Abderrahim, la farmacista eletta primo cittadino, si presenta senza velo e veste all'occidentale, ma è una seguace dei Fratelli musulmani locali.

In Libia va anche peggio con i terroristi dello Stato islamico, che fanno saltare in aria gli uffici elettorali. Le presidenziali previste per fine anno saranno un terno al lotto, che potrebbe riportare in auge, Seif el Islam, il figlio intelligente del colonnello Gheddafi. Dopo la disastrosa primavera araba libica sarebbe un risultato paradossale, come l'elezione con il 97% dei voti del presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi. L'erede perfetto non della rivolta di piazza Tahir, ma dell'ex padre-padrone del paese Hosni Mubarak.

Anche in Libano nonostante i veti incrociati fra i partiti confessionali avessero dilazionato il voto dal 2009 è andato alle urne solo il 49% dell'elettorato. Il Paese dei cedri è stato pesantemente sfiorato dagli effetti devastanti della primavera araba siriana. Un motivo in più, assieme a corruzione e seggi ereditati in maniera dinastica o settaria, per convincere metà della popolazione che il sistema democratico a certe latitudini serve a poco. Non a caso dal voto di domenica è uscito vincente il blocco sciita dominato dal partito armato Hezbollah non proprio un esempio di credo democratico.

Il 12 maggio si voterà in Irak, ma la posta in gioco è se vinceranno i moderati o gli estremisti filo-Iran. E la prima decisione del nuovo governo potrebbe essere quella di sbattere fuori le truppe americane e alleate, comprese quelle italiane, che hanno permesso la sconfitta del Califfato.

Ancora meno speranze democratiche in vista del voto di giugno in Turchia.

Erdogan punta all'investitura definitiva per fare quello che vuole e riattizzare la guerra in Siria spazzando via i curdi. Curioso che il 20 maggio il presidente turco terrà un comizio a Sarajevo, nel cuore d'Europa, per spiegare come diventare «sultano» grazie alla urne.

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