Roma - Il partito anti premier ancora non c'è, ma quel poco che si intravede assomiglia paurosamente a una estremizzazione di quello che Matteo Renzi vorrebbe fare al suo Pd: tutto ruota attorno al capo e l'organizzazione, se c'è, è liquida. A sinistra del Pd, per il momento, siamo allo stato gassoso. C'è un leader riconosciuto e consacrato dai sondaggi, ma che al momento è recalcitrante. Maurizio Landini, leader della Fiom che ha fatto uscire i metalmeccanici della Cgil dal ghetto antagonista, lanciandoli nell'Olimpo mediatico. Senza peraltro cambiare linea.
Ci sono tanti aspiranti dirigenti, consiglieri regionali e parlamentari. Poi, soprattutto, tanti sondaggi favorevoli, che scatenano gli appetiti. Giorni fa, quello dell'Istituto Piepoli, secondo il quale il 57 per cento degli italiani è a favore della linea Fiom (e quindi di quella della Cgil guidata da Susanna Camusso) e solo il 40% approva la linea Renzi. Ieri, uno decisamente diverso realizzato dall'istituto demoscopico Ixè, in esclusiva per Agorà, ha assegnato alla Leopolda di Renzi il 27% dei consensi degli elettori totali e il 46% di quelli Pd. La manifestazione del 25 ottobre della Cgil, monopolizzata mediaticamente da Landini, ha raccolto il 21% del totale e, addirittura, il 19% degli elettori democratici. Cioè ancora meno della media totale. La maggioranza degli italiani, il 52% (e il 35% degli elettori Pd), non si è riconosciuto in nessuna delle due manifestazioni.
In sostanza, il «partito di Landini», se esiste si muove sui piccoli numeri. Ma alla truppa autoproclamata del leader a sua insaputa, ha aspirazioni minime e interessa soprattutto la sopravvivenza parlamentare. Assicurata secondo alcuni sondaggi. Piepoli gli attribuisce intenzioni di voto pari al 10%, su una soglia che è attualmente al 4,2% e sale all'8% con l'Italicum nel caso in cui la lista Landini corresse da sola (4,5% in coalizione). Abbastanza per richiamare i partitini della sinistra, a partire da Sel, che diventerebbe il nucleo del partito Fiom e che oggi è accreditata dai vari istituti al 2%. Poi Rifondazione comunista (tra l'1% e l'1,5%). C'è poi il pezzo di Partito democratico che potrebbe lasciare il Nazareno per la nuova formazione. Stefano Fassina, Gianni Cuperlo e anche Filippo Civati, che per la verità dentro il Pd ancora raccoglie più consensi del sindacalista. Potrebbero portarsi dietro dei voti democratici, magari il 20% e ridimensionare il successo di Renzi.
Condizionale più che obbligatorio in questo caso. Perché la storia politica recente dice che gli ex sindacalisti, o i sindacalisti che scendono in campo mentre sono in attività, non hanno mai fortuna in politica. Tantomeno se si presentano come leader. Stella polare per Landini, raccontano sindacalisti Fiom, è la vicenda di Sergio Cofferati. Due milioni di persone portate in piazza, sondaggi alle stelle, un consenso che diede alla testa alla sinistra di quegli anni (dal 2002 al 2004) tanto da interrompere il timido processo di modernizzazione dell'ex Pci. Il 70% dei militanti del partito lo voleva leader, ma la sua discesa in campo non è stata un successo. Lo ammette implicitamente anche lui quando «sconsiglia vivamente» l'ex collega «di entrare in politica perché l'Italia ha bisogno di un sindacato forte con rappresentanti come lui. Le vicende della politica non si possono risolvere in piazza». Praticamente un'autocritica. Guglielmo Epifani è stato segretario Pd, ma la sua carriera politica non si può definire di successo. Poi, passando alla Cisl, Sergio D'Antoni. Per un po' si pensava dovesse aggregare il centro politico morente. Più tardi, la cosa bianca, che vedeva un pezzo di sindacalismo Cisl coinvolto, non è arrivata a niente.
E anche Franco Marini, arrivato a fare il segretario del Ppi, ha mancato la sua partita politica più importante con il Quirinale. Ce n'è abbastanza per scoraggiare Landini. Sempre che qualche aspirante parlamentare non lo convinca del contrario e lo usi come taxi per un seggio da senatore o deputato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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