Giuseppe Conte ha 400 buoni motivi per sentirsi davvero sereno. È il suo esercito di terracotta, la sua assicurazione, il serbatoio di fiducia per restare al governo senza affanni. Non sono parlamentari, ma poltrone. Nomine. Teste. Feudatari. L'incarnazione senza tanti fronzoli del potere. Renzi, Zingaretti e affini possono anche mettere in scena la danza delle spade o dei lunghi coltelli, parlare di riforma della prescrizione, di frontiere aperte o chiuse, di tasse e pensioni, ambiente e idrocarburi, elezioni suppletive o regionali, ma è solo un modo per tenere accesi i motori e riempire di carburante l'altoforno dei social network.
Il Conte bis in fondo si basa su due ingredienti facili: il nemico e la gestione del potere. Il nemico da evocare, da sbandierare, come giustificazione etica. Siamo qui per evitare che non ci sia lui. Il potere da dissimulare, da nascondere, da non battezzare mai in pubblico. L'importante è ricordarsi da segnare in rosso i numeri del calendario. Marzo e aprile saranno i mesi di fuoco. Ci sono da rinnovare i posti chiave di Eni, Enav, Poste, Leonardo, Monte dei Paschi di Siena, Agcom, Garante per la Privacy, agenzie fiscali e una galassia di società di Stato, parastato, controllate, affiliate. Le poltrone in tutto sono più o meno 400. Questo significa relazioni, voti, soldi, lobby e scambio di favori. Questo significa avere in mano le casematte della politica, dell'economia e della società. Questo significa avere dalla propria parte la casta dei mandarini e il popolo dei burocrati. È il più immediato cordone sanitario per isolare il virus Salvini. L'ambizione di Conte è diventare il punto di riferimento di questa rete di poteri. L'avvocato del popolo ha già da tempo indossato la toga di notabile di Stato. La sua storia politica racconta meglio di qualsiasi altra cosa l'avventura dei 5 Stelle. La rivoluzione grillina era solo un taxi. L'ultima preoccupazione del governo Conte è governare. Il potere non ha bisogno dell'arte di governo. Non è necessario avere un idea, un progetto, una visione. Tutte cose che hanno senso se si vuole lavorare per il futuro, ma non è questo il caso. Si è capito in fretta che Conte e i partiti che lo sostengono non si sono mai preoccupati troppo di quello che c'è al di là dell'orizzonte presente. È il governo del tira a campare. Il futuro, se esiste, è solo qualcosa da rinviare, da buttare con un calcio un po' più in là. Gli ultimi giorni di gennaio il premier ribadiva la necessità di una verifica di maggioranza. «Non sono disposto a vivacchiare», diceva. Parlava di road map, provvedimenti, grandi riforme, di una lista di missioni da compiere per ridare slancio a un'Italia da troppo tempo depressa e rassegnata. A sentirlo sembrava un discorso alla De Gaulle, l'inizio di una nuova repubblica, terza, quarta, quella che è. Sul tavolo una serie di riforme strutturali da realizzare in un anno o due: il taglio dell'Irpef, nuove garanzie sul lavoro, la soluzione finale per le pensioni, la legge elettorale, i dossier Alitalia e Ilva, una soluzione pacifista per la Libia e perché no per il Medio Oriente, magari perfino una ricetta per salvare il mondo dall'apocalisse. La verifica c'è stata, ma in sordina. Tutti d'accordo che il governo deve andare avanti. E i grandi progetti? Boh, prima o poi si faranno. Il mondo non finisce mica domani.
Conte alla fine sembra più Brancaleone alle crociata, ma senza simpatia. E a chi gli chiede cosa farà il governo la risposta è più o meno questa. «Addo' ite?». «Ahh ... Così senza meta». «Venimo?». «No, no, ite anco voi senza meta, ma de un'altra parte».
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