A rrivano a pomeriggio quasi inoltrato, agli Spedali Riuniti di Brescia, i due medici veronesi chiamati al pietoso compito dell'autopsia sul corpo di Sofia, la piccola trentina stroncata dalla malaria lunedì scorso. Lavorano fino a tardi, sapendo che questo passaggio - ordinato dalla Procura di Brescia - è tanto inevitabile quanto insufficiente a spiegare la morte della bambina. Quando finiscono, e firmano le carte che autorizzano la restituzione di Sofia alla sua famiglia, si limitano a confermare ciò che già si sapeva, cioè che l'ha uccisa la malaria attaccandole il cervello. Il vero obiettivo dell'esame, trovare le tracce del ceppo di plasmodium falciparum per poterle confrontare con i parassiti che negli stessi giorni avevano fatto ammalare due bambine africane, ricoverate nello stesso ospedale, richiederà ancora giorni. Ma se anche arrivasse la risposta affermativa, il mistero sarebbe ben lontano dall'essere risolto.
Anche con la certezza che il parassita era esattamente il medesimo, bisognerebbe infatti capire come sia avvenuto il contagio. La pista della colpa medica, dell'imperizia di un infermiere, va a scontrarsi sia con un dato di fatto (Sofia e le bambine erano in stanze diverse, sottoposte a terapie diverse) sia con la tranquillità che, dopo gli accertamenti febbrili di queste ore, ostentano i vertici dell'ospedale Santa Chiara: «Siamo certi che non sono stati fatti errori procedurali e che i materiali erano tutti monouso», dicono ieri. Certo, gli ispettori inviati dal ministro Lorenzin e sbarcati ieri a Trento dovranno verificare questa affermazione. Ma al Santa Chiara, dopo la fibrillazione iniziale, sembrano sicuri del fatto loro.
La verità è che più si va avanti, e più una spiegazione sembra allontanarsi: tant'è vero che il cerchio degli accertamenti e delle ipotesi si allarga a dismisura, viene ispezionato anche l'ospedale di Portogruaro dove Sofia venne ricoverata due giorni a Ferragosto, e il capo degli ispettori ministeriali lancia persino l'ipotesi che la zanzara killer abbia punto la bambina nel campeggio di Bibione dove era in vacanza con la famiglia. Ed è di tutti gli scenari quello più allarmante, perché costringerebbe a rivedere vecchie certezze sulla impossibilità della zanzara di portare il plasmodium anche alle nostre latitudini. La zanzara anofele in Italia esiste, da tempo, e anche nel profondo nord a ridosso delle Alpi. A venire escluso era finora il rischio che diventasse vettore di un male che consideriamo sconfitto da decenni. A quanto pare, forse non è così.
Nel bailamme, si fanno largo ipotesi ardite, come quella di una zanzara finita nei bagagli della famiglia africana, viaggiata insieme a loro dal Burkina Faso al Trentino, sopravvivendo a diecimila metri d'altezza nella stiva degli aerei, giunta con le bambine nell'ospedale di Trento e qui andata a contagiare Sofia. «Siamo vicini all'impossibilità», dicono gli esperti.
Ogni scenario che si affaccia viene affossato da dati di fatto che dovrebbero escluderlo, in un valzer di ipotesi e smentite dove comincia già a serpeggiare lo scetticismo, il timore che alla fine la morte di Sofia rimanga un mistero inspiegato. E a riportare al buon senso arrivano le parole pacate del nonno di Sofia, che chiede di capire ma dice: «non accusiamo nessuno, tutti hanno fatto il massimo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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