"Il lavoro era la sua vita. Tutti i visionari fanno così"

Il filosofo Giulio Giorello: "Macchè fanatico, si è dedicato a un'impresa memorabile. Non ha salvato se stesso? Ma chi lo fa..."

"Il lavoro era la sua vita. Tutti i visionari fanno così"

La morte improvvisa, dopo una veloce malattia, di un uomo potente, ricco e ancora giovane - secondo gli standard odierni, che considerano 66 anni non più la terza età ma la «maturità» - ha impressionato tutti. Anche chi non lo ha conosciuto, frequentato e magari neanche ammirato. La morte di Sergio Marchionne, indirettamente, ha scosso la sensibilità di ognuno di noi su questioni scivolose, come la fragilità dell'esistenza, la fatuità di fronte al destino dei ruoli pubblici e del denaro, il lavoro come motivo di vita e ragione della morte - «Ma chi lavora 18 ore al giorno, tutti i giorni, è un martire o un folle?» - la santificazione mediatica di un uomo d'affari laico... Domande a cui può aiutare a rispondere un filosofo, ma pragmatico, come Giulio Giorello, 73 anni, che sa cosa significa dedicarsi con abnegazione assoluta al lavoro: università, convegni, libri, editoria, giornali, e poi ritrovarsi un giorno, all'improvviso, debole e fragile.

Marchionne era un uomo potente, in salute, influente. Poi all'improvviso...

«Era un persona che univa una volontà tenace a una grande capacità di lavoro, purtroppo con una condizione evidentemente più debole di quanto immaginasse. Ha pagato la tensione tra la fragilità del fisico dell'uomo e l'energia della visione dell'imprenditore».

Si è caricato di una missione più grande di quanto potesse sopportare?

«Si è caricato della responsabilità di inserire la Fiat dentro la dimensione di un capitalismo globale che, se sviluppato bene, porta utili per sé e poi benessere per tutti. Un compito pesante, lo si deve riconoscere. Essere capitalisti è quasi facile. Essere capitalisti illuministi un po' meno».

La filosofia e le religioni da qualche migliaio di anni ci ricordano la fragilità della vita. «Finiamo i nostri anni come un soffio... Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo».

«La vita dell'uomo è lo scarto che esiste tra i progetti che ci prefiggiamo di raggiungere e le condizioni in cui ci troviamo a dare loro corpo. Le nostre azioni tendono a un fine, ma sono scosse dal vento della sorte. La Bibbia, soprattutto in alcuni Salmi, ha saputo cogliere la fragilità dell'essere umano in modo illuminante anche per quanti, come me, e credo anche come lui, non sono portati alla fede».

Ancora una volta la morte equipara tutti, al netto delle grandi ricchezze, delle possibilità materiali, delle conoscenze...

«La ricchezza non cambia il destino dell'uomo. O meglio: la nostra condizione di fragilità non può essere cancellata dal denaro. Ecco, allora, cosa scelgono di fare i grandi uomini: usare le proprie ricchezze per realizzare progetti di grande potenza innovativa».

Quello che ha fatto lui?

«Quello che ha cercato di fare lui. Il senso di ingiustizia che abbiamo percepito per la sorte toccata a Marchionne, è proprio questo: la sua morte inspiegabile e improvvisa ha smascherato tutti i nostri limiti. Ci ha fatto sentire indifesi. Siamo tutti impegnati a perseguire o costruire qualcosa che crediamo o utile o buono, e poi ci accorgiamo che la realtà del mondo fa sì che tutto finisca. Giordano Bruno, il filosofo che più amo, nel De Immenso ci ammonisce dicendo che anche il progetto più grande può rompersi. Ma averlo tentato è una grande cosa».

Tentando di realizzare il proprio progetto si può anche morire. Un uomo che lavora 18 ore al giorno, vive 40 ore alla settimana in aereo, non si concede neppure un weekend, è un fanatico o un martire?

«Non so se sia un martire. Di certo non è un fanatico. Marchionne - e molti come lui - era dotato di una grande passione per i propri progetti, e dava tutto ciò che aveva per trasformarli da idee a fatti concreti. Penso agli scienziati, gli studiosi, i ricercatori, a tutti coloro che vivono dentro i loro laboratori, le aziende, i centri di ricerca per dare corpo a una teoria, un'intuizione. Lavorano senza contare le ore, senza rendersi conto del tempo. Ma non sono fanatici. Sono uomini animati da una immensa passione. Anche se a volte dentro una dimensione tragica... Quella di Marchionne è stata una lezione. Non una follia».

Ma l'uomo è soltanto il suo lavoro?

«L'uomo si valuta non soltanto, ma soprattutto per ciò che fa, come lavoratore manuale o intellettuale. Tra i tanti modelli, cito una donna: Marie Curie. Che nonostante le pesanti emarginazioni - perché nella Polonia russa le donne non erano ammesse agli studi superiori - lavorò così duramente e con passione da ricevere due Nobel, uno per la Fisica e uno per la Chimica. Lavorò e basta. Fu una fanatica? Una folle? Non credo».

Ma il lavoro quando diventa un'esagerazione è ingiustificabile.

«La passione per il lavoro non è una monomaniacale esagerazione. È un modo buono per uscire da una vita troppo stretta e per ampliare il proprio orizzonte, umano e professionale».

Insisto. È possibile che un uomo, quale che sia la sua carica e la sua posizione, abbia come unico orizzonte il lavoro? Che goda di più presiedendo un consiglio di amministrazione che scappando un pomeriggio con l'amante? Per dire...

«Può sembrare strano, ma la risposta è sì. È tipico delle figure di questo tipo: innovatori, scienziati, visionari, grandi imprenditori. Gente che si alza all'alba, finisce di lavorare di notte, non si regala neppure una gita in barca, perché deve verificare un'ipotesi al microscopio, analizzare complesse strutture biologiche, rivedere piani aziendali... Chi ha una passione, e vuole ottenere grandi risultati, non si riconosce alcuna esagerazione».

Anche a costo di trascurare i propri figli? Marchionne si rammaricò del tempo che gli aveva sottratto.

«Queste sono scelte di vita di cui la persona in questione è l'unica responsabile. E comunque rendersene conto e chiedere scusa ai propri figli è un grande atto umano».

Non solo il mondo dell'imprenditoria o dei giornali è rimasto toccato dalla morte di Marchionne. Ma persino i ragazzi. Eppure non era né un pilota di F1 né una rock star...

«Anche un imprenditore può diventare un esempio. Chi porta avanti progetti innovativi, non solo mettendo a posto l'esistente, ma pensando a una nuova dimensione del reale, finisce per colpire la fantasia di un ragazzo. Tanto quanto un artista o un musicista. Chi investe tutta la propria vita in un'impresa memorabile, entra nella memoria. Di tutti».

Marchionne aveva tre lauree. Giurisprudenza, Economia e Filosofia. Che considerava la più importante.

«Lo dico con imbarazzo, io che ne ho solo due. Ma tra la laurea in Matematica, che mi permette di parlare di cose di Scienza sapendo ciò che dico, e quella in Filosofia, che mi ha instillato non solo il piacere della conoscenza ma soprattutto il gusto per la curiosità e l'ambizione di porsi sempre nuovi obiettivi, beh... insomma... lo capisco. Di lui si può forse criticare come ha vissuto, ma non come è morto: lontano dalla routine. La Filosofia serve anche a questo».

Però il maglioncino al posto delle giacche era insopportabile. Finto snob.

«E se invece fosse solo una comoda, elegante semplicità?».

Qualcuno ha detto che Marchionne ha salvato la Fiat, ma non ha salvato se stesso.

«Intanto ha salvato la Fiat. E non solo. E poi, mi scusi: Lei ha mai conosciuto qualcuno che è stato capace di salvare se stesso?».

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