Il capo politico dimezzato. Dopo il tonfo elettorale in Abruzzo, Luigi Di Maio rischia di essere travolto da un pericoloso «effetto domino». Con una leadership interna ormai diventata come un traballante castello di carte, in grado di far venire giù l'attuale assetto del M5s. Da un lato ci sono i frondisti «di sinistra», sempre capeggiati dietro le quinte da Roberto Fico che spingono per l'autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per il caso Diciotti, viatico per staccare la spina pentastellata al governo gialloverde. Dall'altro, secondo alcuni retroscena, ci sarebbe «il partito di Conte», formato da notabili di Palazzo Chigi e parlamentari grillini moderati. In mezzo c'è Luigi Di Maio, in silenzio, e in fuga dal vertice di governo a tema Venezuela convocato nella tarda serata di lunedì con il premier e il ministro dell'Interno. In fuga anche dall'incontro di ieri mattina sull'analisi costi-benefici sulla Tav. Il capo politico ha trascorso la mattinata barricato al Mise, in quella Via Veneto dove la «Dolce Vita» grillina dei primi mesi dalla presa del potere è solo un lontano ricordo.
Di Maio, insomma, è sotto accusa, e tra i rilievi che gli vengono rivolti ce n'è uno che dall'avvio del governo era rimasto sottotraccia: il cattivo rapporto con il Quirinale. E si tratta di una «colpa» che sta facendo aumentare le quotazioni di Conte nel borsino della leadership a Cinque stelle, a scapito dello stesso Di Maio.
Infatti, negli equilibri precari tra governo e Quirinale, pesa quella che viene definita da più parti come «l'incomunicabilità tra Di Maio e Mattarella». Un nodo che, raccontano, da mesi «turba la serenità» del capo politico e ha aperto praterie di dialogo e mediazione al premier e a un gruppo di «tecnici» di Palazzo Chigi diventati di sua fiducia. Senza il filtro dei vertici M5s. La freddezza con il Colle ha aperto una crepa nel gruppo parlamentare del Movimento, dando spazio a una piccola ma influente corrente di «mattarelliani» composta dai deputati Emilio Carelli e dal collega palermitano Giorgio Trizzino, più il senatore Stanislao, detto «Steni», Di Piazza, palermitano anche lui, come Mattarella. E Di Maio e il suo staff sembrano essere esclusi dal flusso. Una fonte esperta di consuetudini istituzionali, con memoria storica, ostenta meraviglia e parla di «occhi bassi e imbarazzo» da parte del vicepremier grillino ogni qual volta si trovi di fronte al presidente della Repubblica durante occasioni ufficiali.
Ma basta andare un po' a ritroso nel tempo per rintracciare le origini del problema e ricostruire un rapporto che non va oltre la cortesia formale che dovrebbe, quasi obbligatoriamente, intercorrere tra due alti rappresentanti delle istituzioni. E l'origine di tutto sta nella frettolosa e goffa richiesta di impeachment invocata dal capo politico dei Cinque stelle a seguito della prima bocciatura del governo Conte, con i veti che pesavano sulla nomina dell'economista Paolo Savona al ministero dell'Economia. Allora l'input era arrivato dallo staff comunicazione del M5s, guidato da Rocco Casalino e Pietro Dettori, gli stessi che, a partire dai giorni successivi alla formazione dell'attuale esecutivo, stanno tentando di rimediare in tutti i modi all'errore.
Così, a luglio del 2018, Di Maio ha ammesso candidamente: «Chiedere l'impeachment di Mattarella fu un errore», e a dicembre ha definito il capo dello Stato come «l'angelo custode del governo». La strategia, però, non ha funzionato. E l'«incomunicabilità» con il Colle più alto ora è solo l'ennesima difficoltà da affrontare per un leader dimezzato dalle urne e preoccupato dai sondaggi.
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