La leadership del Cavaliere: quando contavamo all'estero

Un saggio ripercorre tutta la strategia internazionale di Berlusconi. Fu denigrata ma era informale ed efficace

La leadership del Cavaliere: quando contavamo all'estero

Quando Silvio Berlusconi, nel 1994,decise di scendere in politica era già trascorso qualche anno dalla caduta del Muro di Berlino e i regimi dell'Europa Orientale costruiti con il cemento del socialismo reale erano finiti in polvere. In Italia, la cosiddetta «Prima repubblica» era spaesata e agonizzante dopo la stagione di «Mani pulite», sembrava pronta a cedere all'offensiva, sia pure in controtendenza con quanto era avvenuto all'estero, dei post-comunisti. Crisi del parlamentarismo, disgusto per scandali e comportamenti corruttivi, disaffezione nei confronti delle istituzioni e della politica avevano generato un clima di rassegnazione.

La discesa in campo di Berlusconi, all'insegna del progetto di «rivoluzione liberale» e di rinnovamento del sistema politico e istituzionale, fu percepita come una novità in grado di intercettare la pulsione «antipolitica» e trasformarla in passione «politica». Berlusconi fu visto come una specie di «corpo estraneo» alla tradizione e alla prassi di un sistema politico ingessato dalle preclusioni ideologiche e imbrigliato dai lacci e lacciuoli di una egemone cultura di sinistra fondata sul mito dell'unità della Resistenza a guida comunista. È fuor di dubbio, comunque, che, fra entusiasmi e demonizzazioni, egli abbia rappresentato, al governo o all'opposizione, un fattore fondamentale del pur incompiuto processo di trasformazione del sistema politico in direzione di una «democrazia concorrenziale» fondata, per usare la pregnante immagine di Schumpeter, sulla libera concorrenza per un voto libero. E ciò malgrado il fatto che, da più parti, in campo non solo giornalistico ma anche storiografico, non siano mancati i tentativi di derubricarne la figura e l'esperienza politica a incidente o a fenomeno transitorio della storia d'Italia.

Anche per quel che riguarda la politica estera negli anni berlusconiani sono stati versati fiumi di inchiostro sulla presunta «anomalia Berlusconi» che avrebbe provocato perdita di credibilità internazionale per l'Italia. Le argomentazioni a sostegno di questa tesi sono state sostanzialmente le stesse usate per denigrare la politica interna di Berlusconi conflitto di interessi, personalizzazione della politica, discontinuità con il passato con l'aggiunta di commenti velenosi su certi suoi comportamenti ritenuti poco ortodossi negli incontri internazionali. Sono stati utilizzati cinicamente, per demolire l'immagine berlusconiana anche argomenti le «risatine», per esempio, di Sarkozy e della Merkel che avrebbero dovuto suscitare indignazione perché offensivi del popolo italiano.

Tutto ciò ha precluso una riflessione storiograficamente seria su Berlusconi. Un tentativo di andare oltre gli stereotipi con un approccio scientifico è stato compiuto da due studiosi, Emidio Diodato e Federico Niglia, che hanno dedicato a Berlusconi nella sua versione «diplomatica» un bel volume dal titolo Berlusconi the Diplomat: Populism and Foreign Policy in Italy (Palgrave Macmillan, pagg. XVI-226). Il titolo farebbe pensare per la presenza del termine «populismo» a un ennesimo lavoro scritto per accreditare l'immagine di Berlusconi come antesignano del populismo. In realtà non è così. Il volume colloca Berlusconi nel solco della storia repubblicana ponendosi la domanda se egli abbia davvero inciso sulla politica estera italiana. La risposta è affermativa, anche se, come emerge dall'analisi, Berlusconi «diplomatico» non ha stravolto né alleanze né priorità dell'azione internazionale dell'Italia. Diodato e Niglia analizzano, per esempio, l'approccio berlusconiano alle direttrici classiche della politica estera italiana atlantismo ed europeismo facendo vedere, per un verso, come l'atlantismo sia stato confermato dal legame con l'amministrazione americana e, per altro verso, come Berlusconi non possa essere in alcun modo assimilato agli euroscettici o agli anti-europei.

Anagraficamente figlio della Guerra fredda, Berlusconi ha sempre considerato l'Europa un riferimento necessario. Peraltro non ha mai digerito l'idea di una Europa «comitologica» e «burocratica» e ha puntato sempre a dare all'Ue un afflato politico di grande respiro. Sotto un certo profilo non è stato fortunato perché si è trovata di fronte una Ue che sia per circostanze internazionali sia per incapacità aveva abbandonato i grandi ideali delle origini trasformandosi sempre più in un'unione centrata sulla finanza e incapace di comprendere i popoli europei e le loro esigenze. Un'Europa, verrebbe da dire, senza anima e senza consenso.

Diodato e Niglia fanno, poi, giustamente notare come il rapporto con Putin e, più in generale, con la Russia sia una novità soltanto apparente. L'anticomunista Berlusconi, meglio di altri, si è reso conto dell'esistenza, tra Italia e Russia, di un legame antico, che affonda le proprie radici nell'età della monarchia, cui si deve il primo trattato di amicizia firmato a Racconigi nel lontano 1909. Ha compreso, insomma, Berlusconi come la Russia post-sovietica non potesse essere oggetto di una politica di «contenimento» occidentale com'era accaduto negli anni del «bipolarismo» internazionale. Alla luce di questa intuizione deve essere visto il suo impegno per promuovere i rapporti tra Mosca e Washington, sanciti da quel vertice di Pratica di Mare che dette vita al Consiglio Nato-Russia. Il tratto innovativo, quanto meno rispetto alla prassi seguita nella prima repubblica, della politica estera negli anni del berlusconismo sta nel fatto che Berlusconi, forse per l'innata diffidenza da uomo d'azienda nei confronti di rituali burocratici, ha impostato la politica estera italiana come una «propria» politica. Diodato e Niglia, avvalendosi di testimonianze di uomini che lavorarono alla preparazione dei vertici, fanno capire come Berlusconi dedicasse una attenzione certosina alla scelta dei luoghi e alle agende degli incontri non per trasformare i vertici internazionali in feste riuscite, ma perché convinto che solo dalla «alchimia» tra i leader potessero scaturire le soluzioni.

In sostanza, Berlusconi ha consolidato sempre più il ruolo della «leadership» come componente della politica internazionale nella convinzione che, in un mondo globalizzato, non sia più possibile impostare linee diplomatiche nel chiuso delle cancellerie.

Si è proposto, insomma e nel contesto di una democrazia che considerava ormai post-ideologica, la ricerca anche in politica estera di un «consenso popolare». Che ci sia sempre riuscito o meno è altro discorso. Ma rimane il fatto, come emerge bene dal bel volume di Diodato e Niglia, che, con Berlusconi e dopo Berlusconi, molto, anzi moltissimo, è cambiato in politica estera.

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