L'errore da non ripetere Rischiamo di addestrare i prossimi jihadisti

Le nostre forze speciali al fianco di possibili futuri nemici. C'è il precedente del 2011

L'errore da non ripetere Rischiamo di addestrare i prossimi jihadisti

Da mercoledì, per concordata rivelazione di Repubblica e ammissione del governo, sappiamo che le nostre Forze Speciali sono in Libia. E attorno alla notizia, fatta trapelare per via extra parlamentare, fioriscono come sempre le desuete polemiche riservate alle nostre iniziative militari. Desuete perché per quanto l'Italia si sforzi, come da Costituzione, di «ripudiare» la guerra questa è pronta ad entrargli in casa sotto i panni dello Stato Islamico.

Stupirsi che un distaccamento di Forze Speciali operi in un paese dove sono in gioco i nostri interessi strategici e dove è presente un nemico pronto a colpirci è semplicemente fuori luogo. Meno fuori luogo è invece cercar di capire le prospettive strategiche della «guerra» italiana allo Stato Islamico. La parola guerra è, in questo caso, decisamente iperbolica. A Sirte i nostri professionisti della difesa operano, per ora, come consiglieri militari. Il loro compito è semplicemente trasferire ad una mal assortita armata Brancaleone composta da milizie di Misurata e Tripoli le competenze indispensabili per sopravvivere ai cecchini e alle trappole esplosive dello Stato Islamico. Va però capito il tornaconto politico di una missione dalle molte incognite. La prima riguarda le milizie a cui regaliamo competenze preziose.

Il tentativo dell'Onu di creare una parvenza di esercito libico fedele al premier Fayez Al Serraj è fin qui fallito. A combattere l'Isis a Sirte sono le stesse milizie di Tripoli e Misurata che nell'agosto 2014 cacciarono con la forza delle armi un governo legittimamente eletto. E pur combattendo lo Stato Islamico la loro ideologia continua ad oscillare tra l'islamismo dei Fratelli Musulmani e lo jihadismo di Al Qaida. Muoiono per Sarraj e per l'Onu soltanto perché sono gli unici, oggi, a garantirgli la paga, ma i loro referenti restano Qatar e Turchia. Nonostante l'adesione al teatrino Onu guidato dal tedesco Martin Kobler quei due Paesi continuano a considerare la Libia un protettorato islamico dove far valere i propri interessi attraverso la Fratellanza Musulmana. Sadil Al Qabir, direttore della Banca Centrale libica, Mustafa Sanalla presidente della Noc, la compagnia petrolifera nazionale e il ministro degli Interni Al-Aref al-Khoga sono, ancora oggi, uomini legati a doppio filo alla compagine islamista. Il generale Al-Mahdi al-Barghathi, il ministro della Difesa chiamato a governare le milizie anti Isis, è invece un re travicello scelto solo in virtù della sua rivalità con Khalifa Haftar, l'uomo forte di Tobruk, nemico dell'esecutivo Onu appoggiato da Egitto, Russia, Francia ed Emirati.

Fornendo appoggi e competenze militari alle milizie impegnate a Sirte rischiamo di commettere gli stessi errori del 2011. Allora la nostra aviazione e le nostre forze speciali contribuirono, su mandato Nato, a far arrivare a Tripoli le milizie islamiste rivelatesi il cancro della Libia. Chi garantisce che, sconfitto lo Stato Islamico e ripreso, anche grazie a noi, il controllo delle risorse economiche, quelle milizie e i loro referenti politici non si scrollino di dosso Italia, Stati Uniti ed Inghilterra per tornare all'abbraccio con Turchia e Qatar? Per un'Italia con interessi energetici radicati soprattutto in Tripolitania la stretta cooperazione con le milizie islamiste della capitale e i gruppi armati di Misurata rischia invece di non essere molto produttiva sul fronte di un'opinione pubblica ancora, nonostante tutto, largamente anti islamica.

Un'altra incognita riguarda gli «amici» inglesi. Sul fronte bellico gli uomini di Sua Maestà hanno profilo decisamente più marcato di quello italiano. Quali sono i loro obbiettivi? Mentre l'appoggio della Francia al generale Khalifa Haftar è rivolto principalmente a garantire alla Total il controllo dei pozzi in Cirenaica le finalità di Londra e della British Petroleum appaiono più pervasive. Non a caso la Gran Bretagna ha avviato politiche libiche decisamente concorrenziali con quelle italiane ben prima del 2011.

Per questo l'impegno inglese è un quesito non da poco. Soprattutto in una Tripolitania dove Misurata lotta per l'egemonia e dove i primattori al fianco delle sue milizie non sono gli incursori italiani, ma le Sas britanniche.

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