C'è il frate cercatore interessato alle noci, come il fra Galdino dei Promessi sposi. E c'è il giornalista cercatore interessato alle risposte, come il Giorgio Boatti che per una decina d'anni ha tenuto (con Oreste Del Buono) la rubrica Luoghi comuni su Tuttolibri. Il quale ha percorso 12.000 chilometri dalle Alpi all'Aspromonte per soggiornare in una trentina di monasteri. Dopo 14 mesi trascorsi in gelide celle arroccate nei luoghi più impervi del Belpaese, si fatica a distinguere il cronista dal monaco, tant'è che ha abbandonato per sempre le redazioni e si è ritirato a vivere in solitudine dentro una cascina del Settecento a Torre d'Isola, nella campagna pavese. Luciano Genta, responsabile dell'inserto della Stampa, ogni settimana lo canzonava: «Allora, hai trovato il monastero giusto? Guarda che non ci si diverte ad andare per conventi...».
«La verità è che questo viaggio è cominciato ben prima che mi accorgessi di averlo intrapreso, forse perché all'inizio è stato una fuga», confessa Boatti, che ha narrato l'esperienza nel libro Sulle strade del silenzio (Laterza). Una fuga dall'irreggimentazione: «A 15 anni già frequentavo le Frattocchie, la scuola di formazione delle nuove leve che il Pci aveva aperto a Roma vicino alla villa dove abitava Palmiro Togliatti». Una fuga dalla politica: «Fui cacciato dal partito nel 1968 perché avevo criticato l'invasione sovietica della Cecoslovacchia». Una fuga dal privato: «Due mogli e una figlia di 40 anni che è stata con l'Onu nei posti più caldi del pianeta, dal Guatemala al Mali, e oggi lavora a Bruxelles per una Ong norvegese». Una fuga dai guai di salute: «Ero reduce da un infarto e rifiutavo il copione del cardiopatico costretto a vivere sotto una campana di vetro».
E poi quel bisogno inesausto di risposte. «Vedevo un Paese allo sbando, che aveva smarrito i fondamentali del vivere civile. Trovavo osceno l'impegno dei mass media nello scrutare dal buco della serratura di una camera da letto di Arcore, come se quello fosse il problema più importante. Dunque che senso aveva il mio lavoro?». All'antivigilia di Natale del 2009, il primo barlume nel buio. «Per non passare le feste da solo, bussai alla porta del monastero benedettino di Finalpia, in Liguria, dove le Alpi finiscono in mare. Un'astronave abitata da marziani. Feci il nome di un cattedratico dell'Università di Pavia, un entomologo, che aveva aiutato i monaci a salvare i loro alveari. Il padre foresterario, senza neppure sapere chi fossi, mi consegnò subito le chiavi del monastero, della mia cella e della biblioteca, dove sono custoditi 50.000 volumi, fra cui cinquecentine e incunaboli. Si era fidato di me al primo incontro! Non ho sottomano le Elegie duinesi ma da qualche parte mi pare che Rainer Maria Rilke descriva bene quello che provai in quell'istante: alla felicità non si ascende, nella felicità si cade».
L'incontro. L'attitudine più vera di Boatti. «Ho una visione pluriprospettica della vita, mi piace conoscere persone diverse da me». Laureato in filosofia a Pavia, segue Giorgio Rochat, il decano della storiografia militare italiana, in varie università: Milano, Ferrara, Torino. «Ma lui, da bravo valdese, non mi sistemava mai e io avevo una figlia da crescere». Incontra Giuliano Zincone, che finalmente lo assume al Lavoro di Genova. Anni dopo lascia i giornali per dedicarsi ai libri di storia. Sforna saggi sul fascismo, sulla guerra fredda, sulla Dc, sull'Arma dei carabinieri, sui servizi segreti, sulla strage di piazza Fontana. Ed ecco, di nuovo, l'incontro. Mentre all'Archivio di Stato consulta documenti per La terra trema (Mondadori), dedicato al terremoto di Messina del 1908, s'imbatte per la prima volta nel volto del nonno Giuseppe. «Quello che sua figlia Federica, mia madre, non poté mai vedere. Morì con questo cruccio, poveretta».
Può essere meno criptico?
«La mamma fu abbandonata al brefotrofio da una ragazza pavese di 16 anni, che l'aveva concepita con un sottufficiale dei carabinieri. Di lui in famiglia sapevamo soltanto che era messinese. Però mia madre ne conosceva nome e cognome. Ebbene, all'Archivio di Stato ho scoperto che molti ragazzi resi orfani dal sisma furono arruolati nell'Arma. E ho trovato la scheda del nonno».
La voce del sangue.
«Mi è capitato anche con un altro libro, Bolidi, che credo d'aver scritto perché mia mamma, accolta in casa da una coppia di contadini benestanti, rimase orfana per la seconda volta nel 1924: una delle prime auto da corsa, di ritorno dal circuito di Monza, falciò per strada i suoi genitori adottivi. Vi furono molti incidenti simili, a quell'epoca. I processi si concludevano con l'assoluzione dei guidatori. In pratica erano considerati colpevoli i pedoni che non si scansavano in tempo».
Non mi ha detto nulla di suo padre.
«Era un ortolano che aveva fatto il cameriere presso i Ceretti, industriali siderurgici della Val d'Ossola. Io sono nato a Zinasco il 30 gennaio 1948, giorno in cui venne assassinato Gandhi. E in casa ho trovato un autografo fatto dal Mahatma a mio padre, che nel 1931 gli aveva servito il tè sul treno a Domodossola, mentre il pacifista indiano era diretto a Roma per incontrare il Duce. In quello stesso anno, su segnalazione dei Ceretti, papà fu assunto come maggiordomo da Arturo Toscanini, in procinto di espatriare dopo che i fascisti lo avevano schiaffeggiato a Bologna. Prima di lasciare l'Italia, chiese al maestro di tornare a Sairano, in Lomellina, per congedarsi dalla famiglia. In paese incontrò quella che sarebbe diventata mia madre e non partì più».
Che cos'è un monastero?
«Una macchina del tempo. Una studiosa, Eva Spinazzè, ha confrontato calendario religioso, dati astronomici e orientamento degli edifici, tutti collocati, chissà perché, sul 45° parallelo. Emblematico il caso dell'abbazia di Santa Giustina a Padova, dove l'orientamento non è effettuato in funzione del sorgere del sole il 7 ottobre, festa della santa, bensì il 7 novembre, ricorrenza di San Prosdocimo, che fu vescovo della città. Costui era il padre spirituale di Giustina. I costruttori hanno fatto memoria di entrambi».
Che cos'ha trovato nei monasteri?
«Maestri che insegnano senza mettersi in cattedra, solo con l'esempio. Solitudine, praticata però in comunità. Silenzio. Gusto per il lavoro ben fatto: nell'abbazia di Praglia un monaco novantenne ha curato per 60 anni da solo le siepi di bosso del giardino all'italiana e oggi controlla che un confratello più giovane esegua la potatura a regola d'arte».
Accolgono chiunque nei conventi?
«Se c'è posto, certamente. È la regola di San Benedetto, che nell'ospite vedeva Gesù Cristo in persona. Dopo aver scoperto d'essere malato di cancro, Vincenzo Maranghi, erede di Enrico Cuccia alla guida di Mediobanca, nell'abbazia di Viboldone s'è conciliato con l'idea di dover morire. Nell'eremo di Sant'Ilarione, a San Nicola di Caulonia, ho trovato Thomas, ex ufficiale paracadutista dell'esercito tedesco che è stato per otto anni in Afghanistan. Nell'abbazia di Sant'Eutizio vive padre Giovanni, che ha lavorato con Pierre Cardin a Parigi, poi s'è occupato del guardaroba di Imelda Marcos a Manila e infine è stato stilista a Tokyo. A Finalpia ho conosciuto uno storico del monachesimo che di giorno scriveva opere monumentali e di notte si alzava per mungere le mucche».
Orari che stroncano.
«Nella certosa di Serra San Bruno, in Calabria, ci si corica alle 20.30. Alle 1 suona la sveglia. Preghiera fino alle 3.30. Altrove di norma si recita la compieta alle 21 e alle 22 comincia il grande silenzio. Nessuno si alza dopo le 5.30».
I monaci non parlano mai?
«Al caffè, mezz'ora prima della compieta. I certosini di Serra San Bruno si concedono una passeggiata nei boschi, a due a due, dopo il pranzo domenicale, l'unico che consumano assieme. A ogni radura, si scambiano di posto in modo che tutti possano conversare con tutti».
Zitti anche a tavola?
«Sì. A parte il lettore che ad alta voce propone brani edificanti».
Dalle Sacre Scritture?
«Anche articoli di giornale e biografie. I benedettini di Norcia leggono i romanzi di Charles Dickens».
Che storie hanno alle spalle i monaci?
«L'abate di Praglia, dom Norberto Villa, è un bocconiano che ha lavorato per la Simmenthal e per alcune multinazionali in Africa. L'abate di Montecassino, dom Pietro Vittorelli, era medico a Roma. Frate Paolo, che ho incontrato a Serra San Bruno, si chiama Joaquim Rafael da Fonseca, era l'ala destra dello Sporting Lisbona, rivale del grande Eusebio, lo spauracchio del Milan di Nereo Rocco e dell'Inter di Helenio Herrera».
Seguono ciò che accade nel mondo?
«Con distacco. Di solito in monastero entrano solo L'Osservatore Romano e Avvenire. Mi sono stupito di trovare nella biblioteca dell'abbazia benedettina di Noci una vasta selezione di quotidiani. Solo che risalivano al mese precedente».
Apprezza i frati che producono marmellate, conserve, tisane e liquori?
«No. E nemmeno quelli che si fanno dare dal Demanio i monasteri abbandonati per aprirvi spacci di ghiottonerie».
Che cosa si mangia nei conventi?
«Molta verdura. Infatti i monaci non muoiono mai prima degli 80 anni. I certosini, che nel mondo sono appena 200, al mattino non fanno colazione. Il pranzo è il loro primo pasto e il pane che avanza diventa la cena. Nei refettori il cibo ritrova la sua solennità essenziale. L'ospite prende per primo la minestra dalla zuppiera. È un onore, ma bisogna stare attenti che ne resti anche per l'ultimo della tavolata. E per avere il pane devi allungare la mano come il mendicante».
Qual è la regola che le piace di più?
«Quella benedettina, ora et labora, prega e lavora, per la sua perspicacia nel cogliere l'essenza dell'animo umano. I suoi due pilastri sono durata e misura. Durata significa impegnarsi a fare cose anche piccole ma non effimere: quando muori, tu sai se sei stato un buon monaco. Misura è la regola applicata con il buonsenso, non in modo militaresco».
Lei è credente?
«Lo ero fino all'adolescenza. Sono tornato alla fede dei miei genitori prima di questo viaggio. Costa molto meno della psicoanalisi ed è assai più efficace».
Se sua figlia fosse diventata suora di clausura sarebbe stato felice?
«Sì, perché nei monasteri ho incontrato soltanto persone serene».
Eppure padre Sergio De Piccoli, ritiratosi a vivere in Alta Valle Maira, mi spiegò che nella basilica di San Paolo Fuori le Mura, a Roma, tra benedettini litigavano per un nonnulla.
«Non bisogna pensare agli eremi come a luoghi paradisiaci, irenici. I monaci mascherano i battibecchi con sublimi ironie, ogni loro parola va a bersaglio».
Da secoli non si erigono eremi.
«La comunità monastica benedettina di Morfasso ne ha costruito uno con i container donati da un benefattore. Dentro non te ne accorgi, anche se le celle sono cubicoli claustrofobici».
Quale monastero l'ha più colpita?
«Per radicalità, Montecassino. Come storico mi ha turbato un fatto: il primo dei B-17 alleati che nel 1944 lo rasero al suolo, con una grandinata di bombe da 250 chili l'una, recava sulla carlinga il numero 666, che è quello della Bestia, dell'Anticristo citato nell'Apocalisse».
Dove si è trovato meno bene?
«Diciamo che la comunità di Bose non mi ha conquistato, uso un eufemismo».
Il priore, Enzo Bianchi, sguazza nella mondanità: articoli sui giornali, libri, talk show, premi, conferenze.
«Il capitolo che gli ho dedicato ha come titolo Monastero per voce sola. Non credo che ci sia altro da aggiungere».
Lei scrive che Benedetto da Norcia, rifugiandosi a Subiaco, «scappa dalla frivolezza di un mondo che, pur prossimo a morire, non vuole guardare la realtà che bussa alle porte». Sembra una frase per l'Italia di oggi.
«Lo è. Anche allora, a 500 anni dalla venuta di Cristo, Roma si distingueva per dissolutezza».
Torna ancora nei monasteri?
«Sì. L'estate scorsa sono stato a Sant'Eutizio, vicino a Preci, in Umbria, dove gli abitanti la domenica giocano ancora alla ruzzola facendo correre piccole forme di cacio per strada».
Il monaco che rimane più impresso nella sua memoria?
«Padre Mauro. Vive in un eremo a San Benedetto del Tronto. Sembra un ulivo che cammina. Si sottopone a dialisi tre volte la settimana, ma non molla. Incarna l'incrollabilità del monaco. Senti che è un tuo contemporaneo, ma è come se avesse dentro la vita di tutti i confratelli che lo hanno preceduto. Ha attraversato il Medioevo, il Rinascimento, il corso della storia. Ti guarda da una prospettiva in cui il tempo ha un altro respiro».
(733. Continua)
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