«Difficile non sentire del caso di Charlie, i giornali hanno fatto una tale grancassa...». Edoardo Boncinelli, genetista, biologo e studioso che negli anni ha riflettuto spesso sul rapporto tra scienza e libertà (l'ultimo saggio, pubblicato da Guanda, si intitola Io e lei. Oltre la vita) prova a spiegare perché il caso del bambino inglese, ai genitori del quale i giudici hanno imposto di staccare la spina del macchinario che lo teneva in vita, abbia così colpito l'opinione pubblica. «Non si può rimanere indifferenti, di sicuro, perché si tratta di un bambino».
È solo per questo, secondo lei?
«Perché è un bambino, che non può prendere decisioni. Quando si parla di un adulto ci sono tanti problemi, ma si è sicuri che, direttamente o indirettamente, costui o costei possa prendere una decisione. Ma per un bambino no, perciò qualcuno deve decidere per lui, o per lei».
Non è un caso choc?
«Perché parliamo di un bambino. E istintivamente proteggiamo i bambini, anche se si tratta di cuccioli di altre specie. Secondo, si tratta di una novità assoluta, in un Paese come la Gran Bretagna, che è visto da molti italiani come anomalo e il quale spesso ha preceduto altri Paesi in molte decisioni. E questo può essere visto con favore, o con preoccupazione».
Potrebbe essere un precedente?
«Sì, può essere un precedente. Si dice potrebbe: non è logico, ma dal punto di vista umano è quello che facciamo sempre».
Il diritto di famiglia è stato scavalcato?
«Sono uno scienziato, quando sento parlare di diritto mi viene il sudore... ll fatto è che il diritto è tanti anni dietro il progresso scientifico: è qualcosa di macchinoso. Il problema di togliere la vita è centrato sul valore della vita: se essa è un valore di per sé, qualunque sia, allora si prende una decisione; se la è solo con certe caratteristiche, allora si possono prendere altre decisioni, come in questo caso».
Qualcuno deve decidere?
«L'essere umano spera sempre, pensa ci sia rimedio a tutto. Purtroppo dobbiamo constatare che, quando la malattia supera un certo livello, non si può fare niente. Uno scienziato lo può accettare; un essere umano lo rifiuta, perché spera. Ma la speranza è una cosa diversa dall'illusione».
Gli scienziati non hanno avuto dubbi in questo caso. Eppure, perché sembra una sentenza disumana?
«Di nuovo, perché si parla di un bambino. E poi perché in certe nazioni, l'Italia per prima, c'è la tendenza al non si sa mai. Però non sempre è la filosofia giusta».
Ma a lei sembra disumana?
«Io non mi sono mai occupato del fine vita, ma mi sono occupato a lungo di embrioni. E so che cosa vuole dire quando un bambino non nasce come dovrebbe. E, chi parla di natura, sappia che in natura, se un cucciolo non nasce come deve, la mamma lo fa fuori».
Però questa sentenza sembra molto dura.
«Sì, sembra dura, spietata».
Lei che cosa ha pensato?
«Eh beh, difficile restare indifferenti. Mi sono detto: ci vorrebbe sempre una lucidità, come sembra in questo caso. Ma purtroppo il tarlo del dubbio, che scava sempre, è che così il servizio sanitario risparmi. Sotto sotto si pensa: l'hanno fatto per non curarlo».
Il caso del piccolo Charlie pone una questione bioetica forte?
«Per me no. Ma se lo chiedesse ad altri, l'80% le risponderebbe di sì. Perché la maggioranza della gente è schierata contro la scienza e a favore di un atteggiamento miracolistico, che poi non si realizza mai».
Perché secondo lei no?
«Perché io da scienziato, biologo e studioso dello sviluppo so che certe situazioni sono senza via di uscita. Poi non è detto che tutti lo sappiano, o che tutti si fidino. Io mi fido della scienza, ma molta gente no, come nel caso dei vaccini, ormai purtroppo mondiale. Però è una questione molto complessa, vediamo come l'opinione pubblica la digerirà».
Ma quando nasce la questione bioetica?
«Le persone si dimenticano che la parola è formata da bio e etica. Bio non la considerano, e considerano solo l'etica... La questione sorge quando c'è il dubbio scientifico o tecnico. Allora bisogna frenare, e pensarci bene. Poi qualcuno alla fine deve decidere, ma è particolarmente complicato quando c'è il dubbio».
Questa sentenza può aprire la strada a un'eutanasia, diciamo così, facile?
«Questo ce lo può dire solo il futuro».
La famiglia ha detto di non avere potuto scegliere nulla: né che il figlio potesse vivere, né dove e quando dovesse morire.
«Questo non va bene. Alla famiglia bisogna dare un peso, perché sono i genitori quelli che eventualmente soffrono o si rallegrano delle decisioni giuridiche. Se è andata così, è un male non avere dato peso al giudizio dei familiari».
Questo è quello che loro stessi hanno detto. Sono parole che colpiscono.
«Sì sì, colpiscono. In genere è la famiglia a chiedere di staccare la spina, in questo caso è il contrario. Scavalcarla così sembra insensibile. Però è facile parlare, a centinaia di chilometri di distanza».
Bisogna
considerare la singola situazione?«Quando bisogna prendere una decisione, non sarà mai perfetta. Non dobbiamo farci illusioni che sia perfetta, perché non sarebbe da esseri umani. E allora bisogna cercare il meno peggio».
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