È ritornata libera, lontana dal carcere argentino, fuori da quella gabbia dove finiscono i non aventi diritto e dove le urla dei fratelli si mischiano, in una babele di lingue, a quelle di lontani cugini o di esseri che la prigionia ha ridotto a camminare, senza emettere suono, in un eterno «avanti e indietro» che nulla più ha di umano e di animale.
Lei si chiama Cecilia e non è una criminale, non ha commesso alcun reato se non quello di avere un corpo molto simile a quello umano, ma sufficientemente diverso da scatenare la curiosità e la stupida ilarità di chi va allo zoo con i bambini e gli compra le noccioline da gettare a quel buffo essere che sta dietro le sbarre. Cecilia è uno scimpanzé, un primate antropomorfo, come lo sono il gorilla, l'orangutan e il gibbone. Gli scimpanzé, pur facendo parte di quella crème dei primati che viene definita antropomorfa perché condivide molte peculiarità anatomiche, fisiologiche e comportamentali con l'uomo, è anche la più socievole e addestrabile ed è, per questi suoi «sfortunati» tratti, che fino a pochi decenni fa si poteva vedere al guinzaglio di chi la sfruttava, sulla spiaggia, per la fotografia assieme al turista, o sul sedile posteriore dello scooter, con la sua tutina rossa, guidato dall'esibizionista di turno di fronte ai bagni di Rimini. Sempre per questa sua «maneggevolezza», allo scimpanzé andrebbe fatto un monumento per le tante vite lasciate, nei laboratori di tutto il mondo, sottoposto agli esperimenti più inutili e odiosi.
Dopo la morte di due suoi compagni, Cecilia era caduta in uno stato di profonda depressione, incarcerata in pochi metri quadrati, dentro uno dei più squallidi zoo del mondo, quello di Mendoza, tristemente noto per la morte di Arturo «l'orso polare più triste del mondo», come venne definito dai social dopo che le sue foto diventarono virali sul Web.
Tre anni fa, Pedro Pozas Terrados, direttore spagnolo del «progetto Gran Simio» si trovò a visitare lo zoo di Mendoza e, visto lo stato di Cecilia, lanciò una campagna sui giornali argentini affinché venisse riconosciuto il suo diritto a essere liberata da quella angusta e lercia gabbia. La Association of Professional Lawyers for Animal Rights (Afada), un'associazione legale che si batte per i diritti dei primati, ha fatto sua la richiesta di Terrados e ha portato il caso di Cecilia davanti alla Corte di Mendoza, sostenendo che la sua segregazione, peraltro senza più neanche un compagno al suo fianco, era «illegale» e avrebbe minato seriamente il suo stato di salute fino alla possibile morte. Varie associazioni animaliste hanno fatto il resto, battendo il tam tam sui tamburi del progetto internazionale «Gran Simio» di Terrados che difende i diritti fondamentali dei primati antropomorfi, tra i quali ci sono il diritto alla vita e alla libertà individuale.
Il giudice della Corte di Mendoza, María Alejandra Mauricio ha deliberato che Cecilia fosse liberata dal suo carcere.
«Non parliamo di diritti civili inseriti nel Codice Civile - ha detto al quotidiano Los Andes il giudice - Qui stiamo trattando del diritto elementare che va riconosciuto a una specie e che è quello di crescere e vivere nel proprio habitat naturale» e ha concluso, citando Kant «dovremmo giudicare il cuore dell'uomo da come tratta gli animali».Ora Cecilia è in un santuario in Brasile. La sera, quando l'aria si fa fresca, appoggia la testa sulle spalle di uno dei suoi 50 fratelli, ritrovando quel sonno senza incubi che aveva perduto da tanto tempo.
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