Le guerre si possono anche ignorare, ma prima o dopo se ne paga il prezzo. È questa la lezione con cui deve fare i conti il governo all'indomani del bombardamento del centro raccolta per migranti di Tajoura, 12 chilometri ad est di Tripoli. Il raid, messo a segno dagli aerei del generale Khalifa Haftar puntava a colpire l'adiacente base militare di Dhaman. Una base dove sono concentrati i mezzi e gli armamenti utilizzati dalle milizie di Misurata alleate del governo di Tripoli.
La strage, costata la vita a 60 ospiti del centro, ma destinata ad aggravarsi visti gli oltre cento feriti gravi, è stata condannata dall'inviato dell'Onu Ghassan Salamè che parla di un possibile «crimine di guerra» e dal nostro ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi convinto della necessità di «trasferire i migranti in luoghi al sicuro dai combattimenti e sotto la tutela delle Nazioni Unite». Ma la tragedia umana di Tajoura rappresenta anche una tremenda debacle politica e strategica per il nostro governo. Da questo momento diventa impossibile spacciare per «porto sicuro» una Libia flagellata dai bombardamenti. E questo finirà per fornire ulteriori giustificazioni alle navi delle Ong impegnate a sottrarre alla Guardia Costiera libica i carichi umani alla deriva su barche e gommoni. Per non parlare dell'aumento della pressione dei migranti pronti a pagare molto di più pur d'assicurarsi una via di fuga dall'inferno libico. Una pressione che per una legge di mercato alzerà il prezzo dei sussidi e delle sovvenzioni con cui il governo di Tripoli, finanziato in parte da Italia ed Europa, cerca di calmierare l'attività delle milizie coinvolte nel traffico di umani. Tutti questi fattori rischiano di rendere assai complesso il contenimento delle partenze discusso dal ministro Matteo Salvini durante l'incontro di qualche giorno fa a Milano con il premier di Tripoli Fayez Al Serraj. Ma le parole con cui Salvini ha ieri attribuito al generale Khalifa Haftar «la responsabilità dell'atto criminale» di Tajoura sono anche lo specchio della discontinuità e della scarsa coerenza con cui questo esecutivo ha affrontato la questione libica. L'altalena iniziata con il confuso riavvicinamento al generale Haftar condotto dal premier Giuseppe Conte durante la Conferenza di Palermo dello scorso novembre ha prodotto come unico risultato quello di rendere ancor più complessi quei rapporti con Tripoli essenziali per contenere l'esodo dei migranti e difendere le fonti energetiche dell'Eni. In questa confusione abbiamo lasciato non poco spazio all'azione di una Turchia e di un Qatar pronti a rafforzare le milizie jihadiste da cui dipende la sopravvivenza di Serraj.
A rendere il tutto più confuso s'è aggiunta l'insana competizione tra Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Moavero e lo stesso Salvini per il controllo dall'azione politica sul fronte libico. Un'azione politica che ha finito per concentrarsi sul contenimento delle partenze dei migranti perdendo di vista l'obbiettivo irrinunciabile ricerca di un dialogo fra le varie fazioni. Quest'assenza italiana ha contribuito ad aumentare l'influenza delle altre forze esterne. Prima fra tutte quella di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi alleati di un Haftar che dopo Palermo si è ben guardato, anche in virtù del rapporto privilegiato con Parigi, dal soddisfare le aspettative del nostro governo. Certo a parziale giustificazione del nostro esecutivo vanno ricordate l'irrilevanza dell'Onu, lo spregiudicato appoggio garantito ad Haftar dalla Francia di Macron, l'ambiguità di Washington che ha progressivamente abbandonato Roma e, infine, l'assenza di un'Unione Europea sempre più attenta ad isolarci che non ad aiutarci.
Ma in tutto questo la principale responsabilità rimane quella di un Italia dimostratasi incapace di difendere i propri interessi. E la marea di migranti che rischia di sommergerci dopo la strage di Tajoura minaccia di diventare la nemesi per queste nostre colpe.
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