In Libia prove di normalità Il premier ribelle in fuga

Ghwell scappa a Misurata, il nuovo leader Serraj aspetta lo stop alle sanzioni dell'Onu. La Francia avverte: «Rischio escalation di violenza»

Il premier Fayez Serraj con l'inviato dell'Onu per la Libia Martin Kobler
Il premier Fayez Serraj con l'inviato dell'Onu per la Libia Martin Kobler

L'approdo via mare sembra un po' l'affresco finale tratto dalla pellicola Apocalypto. La sterzata storica, con l'arrivo dei conquistadores, non è però poderosa e sfacciata come nel celebre film di Gibson. C'è molta fragilità e incertezza infatti nel «nuovo inizio» della Libia pensata da Fayyez Al Serraj su impulso dell'Onu. Il capo del governo di unità nazionale si è insediato nella base navale di Bu Sitta, non distante dal principale porto di Tripoli, e lavora nel tentativo di consolidare la sua posizione. Al momento Serraj incassa il parere favorevole del governo italiano, ha stretto la mano al governatore della Banca centrale Saddek Elkaber e potrebbe ottenere dalle Nazioni Unite un allentamento delle sanzioni, ma a pesare come un macigno sono le perplessità espresse dalla Francia e rinsaldate da un dispaccio della direzione generale della «Securité Extérieure».

Il ministro degli Esteri Jean Marc Ayrault ha esortato la comunità internazionale a prepararsi ad aiutare anche militarmente il nuovo governo, ma non ha nascosto quanto drammatica sia ormai la situazione in un «Paese dove il caos è palpabile e l'anarchia facilita il rapido sviluppo del terrorismo». In poche parole per Ayrault la Libia «è una minaccia diretta alla regione e all'Europa». È vero che il premier ribelle Khalifa Ghwell (a cui l'Ue ha congelato i beni), ha lasciato Tripoli e si è rifugiato a Misurata, sua città natale, ma gli 007 francesi sono dell'idea che quella di Ghwell non si altro che «una ritirata strategica in attesa di una nuova e pericolosa escalation». Verosimilmente con il sostegno del suo principale alleato, lo sceicco Sadeq Al Ghariani. L'ex Gran Mufti, che si è rifiutato di incontrare Serraj, ha invitato il Consiglio di presidenza a lasciare Tripoli, avvertendo in caso contrario che «ci sono armi in ogni casa».

Gli interessi in gioco sono molteplici, e le forze estremiste legate all'Isis (il brand su piazza è quello di Ansar Al Sharia) vogliono mettere le mani sul Libyan Investment Authority. Si tratta del più grande fondo sovrano dell'Africa e gestisce in particolar modo gli introiti del greggio, per un giro d'affari di circa 70 miliardi di dollari. Il portavoce ufficiale della Compagnia Nazionale del petrolio di Tripoli, Mohammed al Harari, si augura che il nuovo che avanza «possa stabilizzare la produzione di petrolio, portandola a breve da 350mila barili al giorno a 600mila», ma la spinta terroristica rende evidente che il Califfato stia puntando al controllo delle infrastrutture dell'oro nero. Senza il supporto della comunità internazionale Serraj non avrà vita facile nonostante l'appoggio di tredici città controllate fino a ora da Ghwell. Sono municipalità come Sabratha, Zawiya e Zuwara, situate tra Tripoli e la frontiera tunisina, che esortano nel documento sottoscritto tutti i libici ad abbracciare il nuovo progetto. Difficile che possa essere sufficiente a frenare il Califfato. La soluzione militare è sempre dietro l'angolo: in un sondaggio Ixe confezionato per Agorà (Rai Tre) il 18% degli italiani sarebbe favorevole a un attacco militare.

È evidente che il primo messaggio del nuovo governo non può essere quello di chiedere un intervento militare, come sottolineato dal nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ma a breve Serraj sarà chiamato a fare i conti con gente come Abdel Qader Al Najdi, il locale leader jihadista, forte di una milizia di 140mila uomini, che promette «il peggio per chi ostacolerà la nostra avanzata, compresi l'Occidente, l'Italia e gli atei».

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