Da 5.000 soldati a zero in 15 mesi. Una ritirata così non si vedeva dalle disfatte libiche del 1941. Settantacinque anni dopo il ripiegamento dall'ex colonia è solo virtuale, ma i dietrofront inanellati dal governo Renzi non sono meno spettacolari.
Tutto inizia a febbraio 2015 con quella decapitazione di 21 copti egiziani che segnala l'arrivo dell'Isis a Sirte e porta alla chiusura dell'ambasciata di Tripoli. La notizia non dovrebbe essere una sorpresa visto che nel 2014 il caos libico ci ha già garantito l'arrivo di oltre 170mila migranti. Eppure i nostri ministri si ritrovano a recitare a soggetto. Mentre il ministro della difesa Roberta Pinotti prefigura l'invio di 5mila soldati, Paolo Gentiloni, annuncia dalla Farnesina che «l'Italia è pronta a combattere». A richiamar tutti all'ordine ci pensa Matteo Renzi. «Prudenza e attenzione - intima ai luogotenenti - non si passi dall'indifferenza all'isteria o a reazioni irragionevoli». La prudenza diventa però letargo. Per dieci mesi assistiamo senza muovere un dito ai traccheggiamenti dell'inviato Onu Bernadino Leon che tesse e disfa la tela dei negoziati per la formazione d'un governo d'unità nazionale. Nel frattempo - mentre si susseguono i rapimenti dei nostri connazionali, tra cui quello di Fausto Piano e Salvatore Failla uccisi lo scorso marzo - l'Isis arriva a controllare duecento chilometri di costa. Un timido segnale di risveglio arriva dopo gli attentati di Parigi quando Renzi annuncia ad Hollande di voler «dare priorità al dossier libico. Perché la Libia rischia di essere la nuova emergenza con cui ci dovremo confrontare». Un proposito ridimensionato poche ore dopo quando spiega alla direzione Pd che «non possiamo permetterci una Libia bis». In questo tira e molla l'unica certezza sembra la disponibilità ad inviare un contingente militare su richiesta dell'Onu e del nascente governo di unità nazionale. «Se ci sarà una richiesta, l'Italia è pronta ad avere un ruolo», dichiara Gentiloni al Financial Times il 6 dicembre. Un impegno confermato da Renzi durante l'incontro del 28 dicembre a Roma, con Fayez Serraj, il premier libico fresco di nomina. «La nuova Libia - promette Renzi - potrà contare sul deciso sostegno che l'Italia, in coordinamento con la comunità internazionale, intende assicurare...».
A confermare un prossimo dispiegamento di militari per garantire la sicurezza dell'esecutivo Serraj e simboleggiare l'impegno dell'Italia contribuisce Roberta Pinotti nell'intervista del 28 gennaio al Corsera «Non possiamo immaginarci di far passare la primavera con una situazione libica ancora in stallo. Nell'ultimo mese abbiamo lavorato più assiduamente con americani, inglesi e francesi... siamo tutti d'accordo che occorre evitare azioni non coordinate... ma c'è un lavoro più concreto di raccolta di informazioni e stesura di piani possibili di intervento sulla base dei rischi prevedibili». E visto che per valutare «una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche» viene persino convocato, il 25 febbraio, il Consiglio Supremo di Difesa l'impegno viene preso sul serio anche dai nostri alleati.
Il primo marzo il generale Donald Bolduc, comandante delle Forze speciali Usa in Africa racconta al Wall Street Journal che il coordinamento della nuova missione in Libia verrà allestito a Roma. E in un'intervista al Corriere, che lo presenta come «buon amico di Renzi», l'ambasciatore americano John Phillips rivela che «l'Italia potrà fornire fino a circa cinquemila militari». Ma il primo a smentirlo è proprio l' «amico» Renzi. «Con me presidente - dichiara il premier - l'Italia non va a fare l'invasione della Libia con 5mila uomini».
E infatti alla resa dei conti, come ha confermato a Vienna il ministro Gentiloni, l'Italia non manderà in Libia manco mezzo soldato. Perché la guerra - come dice Renzi - «non è un video gioco». Ma se c'è di mezzo lui rischia di diventare una burla.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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