
Come diceva l'astuto personaggio di Agatha Christie, Hercule Poirot, in un'equazione traslata anche nel linguaggio giudiziario "un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova". Ebbene, in Italia in questo caso la coincidenza si è fatta tradizione: ogni volta che il Potere legislativo tenta di riformare la giustizia fioccano le inchieste che si occupano della politica. Ci siano governi di centro, destra o sinistra poco importa.
La riforma costituzionale che separa le carriere tra giudici e pm e rivoluziona la nomina del Csm non fa eccezione. Anzi. Basta leggere le cronache dell'ultimo mese. È una costante che va avanti da oltre trent'anni, confermata da un ex-capo dell'Associazione magistrati, Luca Palamara, diventato un reietto per i suoi colleghi dopo che ha scoperchiato una verità che tutti intuivano ma nessuno ammetteva: le toghe, specie quelle più politicizzate, hanno il vizio di intervenire nella sfera politica per colpire chi considerano un avversario o per interferire nell'approvazione di una legge che considerano penalizzante per la corporazione. E si può scommettere che la campagna referendaria della prossima primavera sulla riforma vedrà - siamo solo ai prolegomeni - la magistratura politicizzata protagonista naturalmente con i suoi metodi.
Ora, visto che ci attendono mesi complicati, varrebbe la pena lasciarsi andare ad una riflessione il più possibile pacata. L'inizio di questo andazzo ha una data che è già finita sui libri di Storia: l'abolizione dell'immunità parlamentare. L'ondata populista che accompagnò Tangentopoli nel 1993 costrinse il potere politico per paura a disarmarsi. E quell'atto determinò il crollo delle dighe che mantenevano in equilibrio i poteri costituzionali: da una parte l'autonomia della magistratura e dell'altra, appunto, l'immunità parlamentare. Da allora a seconda delle stagioni politiche il potere giudiziario ha esondato e violato i confini degli altri poteri.
Chi scrive è d'accordo non da ora sulla separazione delle carriere, ma è convinto che sul piano "tecnico" e simbolico la reintroduzione dell'immunità parlamentare sarebbe l'unica vera strada per ripristinare gli argini che dividono i due poteri e ritornare all'equilibrio voluto dai nostri padri costituenti. Per quella norma si spesero in molti dal comunista Umberto Terracini al democristiano Costantino Mortati.
Se si vuol individuare l'origine dei dissidi tra magistratura e politica questo è il cuore del problema semprechè non si voglia parlar d'altro. E il valore simbolico di un ipotetico ripristino dell'immunità secondo i dettami originali (ad esempio sulle vicende giudiziarie che hanno fatto seguito alla liberazione del generale libico Almasri non interverrebbe per niente) non va sottovalutato perché spesso i simboli sono più efficaci dei "tecnicismi". In fondo sarebbe il modo migliore per chiudere sul piano storico una stagione durata fin troppo: che ha fatto male alla politica e alla stessa magistratura (basta guardare agli indici di fiducia).
Un'operazione del genere però dovrebbe essere presa da una larga maggioranza, per non prestare il fianco a strumentalizzazioni. Anche perché molta acqua è passata sotto i ponti: i magistrati per molti italiani hanno perso le stigmate dell'imparzialità e la Lega che all'epoca era stata l'alfiere dell'idea dell'abolizione dell'immunità ora ne è diventata una fervente sostenitrice.
E allora perché non si fa? Io non penso per il "moralismo" della destra come ha scritto Antonio Polito in un arguto articolo sul Corriere della Sera. Nè tantomeno perché la sinistra sia del tutto succube delle toghe.
No, la questione è più semplice: la classe politica ha paura, ha introiettato un timore psicologico, ha ancora un terrore inconfessabile del populismo nella sua forma peggiore cioè il giustizialismo che continua ad essere agitato da qualche forza politica. Purtroppo come più di trent'anni fa.