C' è un che di disarmante nella spudoratezza con cui un padre milanese ha spiegato ai poliziotti delle Volanti come fosse possibile che suo figlio di venti mesi fosse finito in ospedale per avere mangiato una robusta quantità di hashish: «L'avrà trovata ai giardinetti», ha detto. Versione già improbabile di suo, visto che nei parchi cittadini di solito non cresce la droga, e resa ancora più inverosimile dal ritrovamento di altro hashish in casa del babbo, consumatore abituale. È in casa, dunque, che il bambino ha trovato il «fumo» che ha rischiato di mandarlo al creatore, criminalmente abbandonato alla sua portata: allo stesso modo in cui a Brescia una madre è riuscita a intossicare il proprio figlio di soli due anni, probabilmente consumando cocaina durante la gravidanza; per non parlare del bambino di sei anni cui a Catania la droga veniva deliberatamente messa in mano perché andasse a spacciarla per conto della mamma nel suk del quartiere Librino. Storie non nuove: in aprile a Piacenza un bambino di nove anni era risultato positivo alla coca; a Padova una coppia dava cocaina e metadone al figlio. Dietro ci sono storie di degrado fisico e morale: ma è difficile non vedervi anche le conseguenze di una deliberata cecità della società civile, figlia in parti uguali di menefreghismo e di indulgenza. La tossicodipendenza diventa un problema se turba il decoro urbano, se il «drogato» importuna chiedendo l'elemosina o scippa per una dose; ciò che avviene tra le mura domestiche non ci riguarda.
Invece riguarda tutti, perché i vizi privati diventano prima o poi drammi pubblici; e soprattutto perché tra quelle mura ci sono dei bambini che dovrebbero trovarvi asilo e calore, e si ritrovano col veleno nella pancia.
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