L'Inghilterra celebra i calciatori soldati della Grande Guerra. Imitiamola

Sembrano usciti dalla Spigolatrice di Sapri: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!». Erano invece duecentocinquantotto, i calciatori infossati nelle trincee della Grande Guerra, ventisette morirono nei primi tre mesi, qualcuno tornò a casa, molti non si ripresero più. Ferite profonde al posto dei tatuaggi, elmetti invece delle creste, quando il calcio era ragazzino come loro, ma aveva già gambe che correvano lontano. Il Milan perse dodici dei suoi ragazzi, l'Inter ventisei, la Juventus uno dei suoi padri, metà dell'Udinese e del Verona diventarono croci. Al fronte arrivavano palloni per tenere alto il morale della truppa, si giocava con gli anfibi, come fosse una finale, perchè del doman non c'era certezza. Ragazzi, a volte poco più di bambini, a cui rubarono il futuro, vascelli strappati al mare e consegnati alla tempesta: «Noi, e loro dopotutto siamo solo gente comune - recitava una poesia - solo Dio sa che non è questo che avremmo scelto di fare. "Avanti" fu l'urlo alle spalle mentre la prima fila moriva. Il generale era seduto e le linee sulla mappa si muovevano di qua e di là». Difficile dire se i tempi moderni abbiano imparato qualcosa da quello che fu. Chelsea e West Ham, a Santo Stefano, hanno ricordato con un minuto di applausi i loro eroi, e letto i nomi di quelli che non sono tornati più. La stessa cosa che propone Viviana Beccalossi, garantisce il cognome, di Fratelli d'Italia: Juve e Inter facciano lo stesso, onorino i caduti come si faceva una volta.

In fondo c'è bisogno anche di piccoli gesti in quest'inizio di secolo nostro per ritrovare un orizzonte. «Vedrete, vi porterò verso tempi magnifici...» diceva il Kaiser del Novecento. Ieri come oggi tutto sta nel crederci.

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