Sesso, sangue e soldi. Sono l'essenza, forse la natura stessa del Califfato. Il sangue delle decapitazioni e delle stragi. I soldi del petrolio, dei riscatti, delle opere d'arte razziate. Ed il sesso sfrenato, maniacale dei suoi militanti pronti alle più riprovevoli violenze sulle donne e sulle bimbe cadute nelle loro mani. La Libia, ultima terra di conquista dello Stato Islamico, non fa differenza. Lì a diventare schiave, a venir trasformate in donne oggetto, usate per soddisfare brame e perversioni dei combattenti vittoriosi non sono manco più le cosiddette «infedeli». A Sirte, infrangendo una regola che neppure i folli del Califfato osavano fin qui violare, vengono catturate, vendute o spartite tra i combattenti anche le donne musulmane dei clan perdenti. Le donne di quelle tribù Ferjani che ai primi d'agosto hanno tentato una disperata, fallimentare insurrezione. La spartizione delle donne degli sconfitti è il secondo atto dei diktat di Hassan al Karami, il leader spirituale dell'organizzazione che ha appena annunciato la nascita dell'Emirato di Sirte. «Decapiteremo i ribelli dell'opposizione dopo la preghiera del venerdì e poi gli abitanti di Sirte consegneranno le loro figlie ai combattenti che le sposeranno», ha decretato Al Karami dal pulpito della moschea di al-Rabat.
Ora l'emiro, conosciuto dai suoi con lo pseudonimo di Abu Moweya, sembra pronto al secondo atto delle sue follie. Dopo aver fatto rotolare le teste di una dozzina di combattenti Ferjani e averne esposto i cadaveri nelle strade di Sirte, i suoi tagliagole hanno già iniziato il ratto delle donne del clan rivale. La procedura appare esagerata anche per gli standard criminali del Califfato che, fin qui, ammetteva solo la vendita come schiave di donne non musulmane. Anzi tutte le regole sul commercio e l'utilizzo di schiave, discusse e pubblicizzate fin qui sui siti del Califfato, riguardavano soltanto le donne yazide. O almeno così veniva annunciato ufficialmente. L'emiro di Sirte, un oscuro personaggio uscito da una scuola islamica privata di Tripoli e transitato - prima di approdare allo Stato Islamico - tra le fila dell'organizzazione terroristica di Ansar Sharia, sembra voler superare anche quest'ultima sottile linea rossa.
Il primo documento ufficiale del Califfato sull'utilizzo, il trattamento ed il commercio delle schiave era stato emesso a fine 2014 dal cosiddetto «Dipartimento per la ricerca e la Fatwa dello Stato Islamico». Mentre la riduzione in schiavitù delle kitabiyat , le donne appartenenti alle cosiddette religioni del libro (quindi cristiane ed ebree), era oggetto di discussioni, il documento ribadiva l'assoluto divieto d'imprigionare, vendere e possedere donne musulmane. Con le altre, in compenso, era concessa ogni porcheria. «È permesso avere un rapporto con una schiava anche se non ha raggiunto la pubertà a patto che sia adatta al rapporto. Se non è adatta si potrà trarne piacere, ma senza penetrazione». L'aberrante «consiglio per l'uso» era elencato in «Domande e risposte sulla presa di prigioniere e schiave» (Su'al wa-Jawab fi al-Sabi wa-Riqab), un raccapricciante manualetto in cui i leader religiosi dello Stato Islamico spiegavano il corretto utilizzo e sfruttamento delle migliaia di donne yazidi ridotte in schiavitù nel nord Iraq. «Le donne infedeli catturare e trasformate in beni dell'Islam - spiegava il testo - ci sono concesse dopo che l'imam le ha distribuite tra di noi».
Detto questo, la sola autentica maniacale fissazione degli epigoni del Califfato sembrava la legittimazione delle proprie perversioni. Perversioni certificate grazie alle citazione di versetti del Profeta che le trasformano in depravazioni doc, in linea con le raccomandazioni del Corano. Chi ad esempio si domanda se sia possibile far sesso con una schiava subito dopo averla catturata o comprata può metter da parte dubbi e incertezze. «Se è una vergine il padrone può avere un rapporto con lei subito dopo averne preso possesso. Se non lo è il suo utero dovrà prima venir purificato». Le punizioni anche violente non rappresentano invece un problema. «Picchiare una schiava per ragioni disciplinari è assolutamente permesso», recita il manualetto citando come uniche eccezioni la frattura delle ossa, i colpi al viso o le bastonate inflitte dal padrone come forma di gratificazione personale o di tortura».
La donna schiava è, insomma, una sorta di animale.
Un animale da punire con le torture o la morte nel caso di tentata fuga. La fuga di una schiava o di uno schiavo è tra il più grave dei peccati... e deve venir represso - spiega il manualetto - in modo tale da fungere da deterrente per tutti gli altri».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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