Cronache

ll ruolo opaco dei vertici (già sostituiti dall'Arma) e l'encomio anti spaccio

I silenzi del maggiore Papaleo, ora a Cremona. Ieri rimosso Savo, capo a Piacenza, e altri due

ll ruolo opaco dei vertici (già sostituiti dall'Arma) e l'encomio anti spaccio

Un ruolo «opaco». Così gli investigatori di Piacenza definiscono quello del maggiore Rocco Papaleo, oggi comandante della compagnia di Cremona. Ma che a Piacenza ha lavorato a lungo. Perché «opaco»? Perché se è vero che alla fine è stato Papaleo a portare alla luce quanto accadeva alla stazione Levante di via Caccialupo, è anche vero che l'ufficiale ha atteso anni prima di aprire bocca. E alla fine lo ha fatto non con una denuncia formale, come sarebbe stato suo dovere, ma quasi chiacchierando, facendo ascoltare dal suo telefonino i racconti-choc dello spacciatore Hamza Lyamani.

È un tema delicato, quello del ruolo di Papaleo, perché coinvolge in pieno le responsabilità della catena gerarchica. È su questo fronte che sta lavorando la Procura guidata da Grazia Pradella, decisa a capire come fosse possibile che crimini simili avvenissero non in una caserma persa tra i monti ma in piena città. E la stessa Arma ieri è costretta a tagliare le prime teste eccellenti: viene rimosso dall'incarico il comandante provinciale Stefano Savo, arrivato a Piacenza appena nove mesi fa. Non è indagato, ma la responsabilità oggettiva, il non avere tenuto i suoi sottoposti sotto controllo, gli costa il posto. Insieme a lui saranno assegnati ad altri ruoli anche il comandante del Reparto operativo, Marco Iannucci, e quello del Nucleo investigativo, Giuseppe Pischedda.

E la caccia ai responsabili nella catena di comando rischia di essere devastante. L'appuntato Peppe Montella e i suoi commilitoni (o almeno una parte di essi) sono destinati a venire cacciati dall'Arma. Ma i superiori che per anni li hanno spronati a gonfiare di arresti le statistiche dovranno convincere gli inquirenti di non avere saputo nulla dei sistemi impiegati alla Levante, e tradotti oggi in 58 capi di imputazione.

È lo stesso maggiore Papaleo a fornire agli inquirenti uno spunto esplicito: quando gli viene chiesto il motivo per cui ha taciuto, risponde che «non si fidava degli attuali dirigenti», ovvero degli ufficiali comandanti di Piacenza. Una affermazione di una gravità estrema, anche perché subito dopo Papaleo spiega di avere trovato i racconti di Lyamani verosimili, dato che il tenore di vita dell'appuntato Montella gli era sempre «apparso strano». Eppure tace.

E non è il solo. Tace, di fronte ai metodi della squadretta, il capitano Bezzeccheri, oggi indagato a piede libero per abuso d'ufficio, quello che chiamava Montella «mitico» e lo spronava a fare arresti su arresti. Un comportamento non inconsueto, se non fosse per i rapporti diretti che Bezzeccheri aveva con l'appuntato saltando tutta la catena gerarchica, compreso il maresciallo che comandava la stazione. Possibile che proprio a lui sfuggisse lo «strano» tenore di vita di Montella, che era invece ben noto a Papaleo?

E poi c'è il dettaglio più sconcertante, emerso ieri: l'encomio concesso nel 2018 ai carabinieri della Levante «per essersi distinti per il ragguardevole impegno operativo e istituzionale e per i risultati conseguiti soprattutto nell'attività di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti». La procedura per la concessione degli encomi è precisa, a disporli sono i comandanti regionali e interregionali sui cui tavoli la proposta - in genere avanzata dall'ufficiale superiore - arriva dopo essere passata per i pareri di tutti i gradi intermedi. Vuol dire che nel 2017, quando - secondo le testimonianze dei confidenti - il metodo Montella» era già in vigore, una sfilza di ufficiali - compreso il defenestrato Savo - diedero l'okay all'encomio senza verificare cosa stesse dietro le mirabolanti statistiche di via Caccialupo.

In un'intervista al Corriere, il procuratore Pradella ha ribadito doverosamente la fiducia nell'Arma. Ma questo non significa che rinunci ad andare fino in fondo sulle complicità e le connivenze che hanno portato a fare di un avamposto dello Stato un luogo di torture e di traffici di droga. Non è la prima volta che la foga investigativa e l'ansia da prestazione trascinano un reparto dei carabinieri oltre le regole della legge, basti pensare a quanto accadde a Bergamo.

Ma la sensazione è che stavolta abbia giocato anche la trasformazione degli ufficiali in manager attenti solo ai ricavi: cioè agli arresti.

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