Perfettamente indifferenti ai massacri di civili ucraini perpetrati dalla loro «operazione speciale» (guai a chiamarla guerra: Vladimir Putin non gradisce, dunque è galera immediata per chi si azzarda, ma sotto le bombe si muore lo stesso), ai piani alti di Mosca se la ridono. E ridono di noi italiani, purtroppo. Ridono delle pene in cui si dibatte il nostro premier, spinto a un passo dal gettare definitivamente la spugna dalla inqualificabile iniziativa del suo predecessore, che pur di recuperare (ed è tutt'altro che detto) qualche punticino nei sondaggi elettorali non esita a mettere a repentaglio non solo il prezioso e faticoso lavoro di questo governo d'emergenza assoluta, ma l'immagine e il ruolo stesso del nostro Paese sulla scena internazionale.
A Mosca se la godono un mondo a vedere Mario Draghi, l'uomo che ha restituito all'Italia stabilità, credibilità e una inequivocabile posizione atlantista così sgradite a Putin, alle prese con le beghe di un partito di dilettanti allo sbando, con i ricatti di un leader mediocre e incapace di indicare una linea coerente che non sia appunto quella di distruggere con i più vari pretesti quella stabilità, quella credibilità e quell'atlantismo. E mentre si ascolta la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova augurarsi fin d'ora che il prossimo governo italiano sia finalmente meno asservito agli interessi degli Stati Uniti, non si può fare a meno di farsi qualche preoccupata domanda, rileggendo le pagine di un'autrice informata come Catherine Belton in Gli uomini di Putin, in cui si ricorda citando fonti americane come il Movimento Cinque Stelle fosse incluso nella lista dei partiti europei anti sistema che la Russia sosterrebbe con fondi neri. Senza dimenticare la «passione cinese» della leadership pentastellata culminata nella misteriosa visita di Beppe Grillo nel giugno dell'anno scorso all'ambasciata cinese a Roma a cui un imbarazzato Giuseppe Conte aveva preferito, all'ultimo momento, non partecipare.
Che sia vero (come sostenne apertis verbis Giorgia Meloni) o falso che il M5S sia la quinta colonna della Cina e forse anche della Russia di Putin che con la Cina va a braccetto in Italia, rimane il fatto che a Mosca l'iniziativa di quel partito che ha quasi disarcionato Mario Draghi è piaciuta tantissimo. L'eterno numero due di Putin Dmitry Medvedev, che già gli aveva dato rozzamente del mangiaspaghetti per aver partecipato con gli omologhi francese e tedesco a una visita ufficiale a Kiev per esprimere sostegno all'Ucraina, non aveva perso tempo due giorni fa a chiedersi beffardo sui social chi sarebbe stato il prossimo leader occidentale a seguire la strada del declino già imboccata da Boris Johnson e Mario Draghi. Poi è arrivata, immancabile, la Zakharova. La quale, con il suo innato senso del rispetto per chi non la pensa come Cremlino comanda, ha detto papale papale del nostro ministro degli Esteri che «non capisce niente di ciò di cui si occupa». Luigi Di Maio si era permesso di osservare (cosa in cui è finalmente diventato bravissimo) un'evidenza, e cioè che Conte ha offerto a Putin su un vassoio d'argento la testa di Draghi e che a Mosca si brinda per le sue dimissioni. Ma la portavoce di Sergei Lavrov (che invece è un maestro nel nasconderle, le evidenze, e la lista è chilometrica) pretende che questa ovvietà sia un'invenzione della Farnesina. Al Cremlino avrebbero invece ben chiaro che si tratti di un affare interno italiano, «limitandosi» ad auspicare che il nostro prossimo governo prenda finalmente le distanze da Washington: il che poi significa che dovremmo rompere l'unità della Nato come il suo boss tanto gradirebbe. Alla faccia del limitarsi.
A completare la trinità dei commenti dei vertici russi è
arrivato il più vicino di tutti a Putin, ovvero il suo portavoce Dmitry Peshkov. Anche per lui, il destino di Draghi è affare interno italiano. Chiaro il messaggio sottinteso: non siamo i mandanti di niente e di nessuno.
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