
Il mondo cattolico mediterraneo e quello anglicano delle due sponde dell'Oceano sono da secoli in verticale disaccordo su un punto: se il denaro sia la merda del diavolo, oppure la misura del successo gradito a Dio. Anche in Francia, Paese con una componente ugonotta, cioè calvinista, si guarda ai poveri con atteggiamento sociale, sì, ma anche inquisitivo: «Perché mai tu, povero diavolo, non guadagni il tuo pane invece di rompere le scatole ai passanti?».
In America chi chiede l'elemosina lo fa in modo compunto e quasi colpevole; mentre chi mendica nel nostro Paese sente di poter odiare chi guadagna come colpevole della sua condizione. Negli Stati Uniti si discute proprio di questo: quale sia il rapporto politico fra una ricchezza anche smisurata ma conquistata con il lavoro, e la politica intesa come amministrazione della cosa pubblica. Se Donald Trump è un ricchissimo zio Paperone (l'Uncle Scroodge una cui enorme statua di gesso dorato ha campeggiato per anni nell'atrio della Trump Tower della Fifth Avenue a New York) vuol dire oppure no che costui rappresenta una grande opportunità per l'America?
Una leggera brezza di questa mentalità alitò sull'Italia quando l'imprenditore Silvo Berlusconi entrò in politica: «Se ha fatto la fortuna delle proprie aziende, saprà arricchire anche il suo Paese», si disse. Ma durò poco perché l'Italia è una Repubblica antropofaga fondata sul sacrificio umano e il linciaggio, affinché sempre prevalga il principio barbarico (e papale) secondo cui chi è povero è necessariamente buono qualsiasi malvagità abbia commesso, mentre chi è ricco va considerato per definizione malvagio, quali che siano i suoi meriti (sui quali comunque indaga una procura). Ecco perché chiunque sia in grado di arricchirsi grazie al proprio talento (i giovani chirurghi italiani che incontro negli Stati Uniti e che in Italia farebbero la fame aspettando il loro turno dietro un barone in cattedra) fugge e gambe levate da un lager di imbrogli burocratici e tasse assassine.
Tutto cominciò quando Jean Calvin, dittatore religioso di una Ginevra corrotta e decadente (mandava a morte anche gli adolescenti disobbedienti, oltre che i cambiavalute e i magnaccia) decise che Dio avesse già scelto i suoi prima che nascessero per poi rendere pubblica la sua predilezione facendo diventare i suoi protetti ricchi sfondati, come gli armatori olandesi del Seicento, peraltro commercianti di schiavi, agenti assicuratori e finanziatori di corsari. Prendendo piede il calvinismo e la potenza della Chiesa anglicana, tutti gli imprenditori si dettero alla corsa per l'arricchimento al grido di «Dio mi ha scelto». Negli Stati Uniti un candidato povero, ma poi miliardario come Bill Clinton figlio di una squinternata sciampista di Little Rock, Arkansas, dovette dimostrare di meritare l'incombente ricchezza, mentre un rampollo di famiglie semidivine e dinastiche come John Fitzgerald Kennedy, poteva correre da solo benché cattolico, grazie al tesoro accumulato da un padre filonazista che, come ambasciatore a Dublino contrabbandava alcool durante il proibizionismo con Tom Giamcana, ultimo boss della casata di Al Capone.
Donald Trump è in parte ricco di suo e in parte erede di un padre di origine tedesca (accuratamente travestita con kilt scozzese) che fece miliardi leciti e spavaldi come developper, che gli italiani traducono con il termine spregiativo «palazzinaro» per rendere oscuro un lavoro invece molto chiaro.
Anche Trump figlio è un developper, costruttore urbanista, e più volte ha dovuto ripartire da zero e da sottozero, senza batter ciglio. Il suo motto (scritto nella sua autobiografia) è: «Non capisco che gusto provino i poveri ad esser poveri, quando è così facile, direi elementare, essere miliardari».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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