Roma Luigi Di Maio sa benissimo che questa delle Politiche '18 sarà l'ultima, vera occasione per sfondare e prendere il Palazzo. Approfittando dello sbandamento dei partiti, della nausea degli elettori, della drammatica carenza di nuovi leader (il ritorno in campo di Berlusconi lo dimostra). Con la legge elettorale - non a caso contestata fino alla morte dai grillini - è svanita la possibilità di qualsiasi blitz e/o «aiutino» elettorale in fatto di premi di maggioranza. Ogni partito misurerà la propria forza, poi ciascuno sarà costretto a «collaborare» con altri. Il bello del proporzionale, se vogliamo.
Come non lo possono negare né Renzi né Berlusconi, non lo dovrebbe negare neppure Di Maio. Invece il capo grillino si trastulla prendendo in giro un bel po' di elettori: i propri e qualche astensionista di sinistra tentato dalla «scalata» grillina al potere. Qui c'è però la novità. La nascita di «Liberi e Uguali» di Piero Grasso sta guastando molti dei giochi e sta calamitando nuove forze (di ieri la notizia che pure Antonio Di Pietro è tornato alla carica per farsi candidare). Se prima a sinistra c'era una prateria sgombra per le scorribande grilline, ora collegio per collegio la sfida è aperta: non solo con il Pd, ma soprattutto con chi deteneva il monopolio della delusione (o M5S o restare a casa). Per questo, la tattica varata negli studi della Casaleggio Associati prevede di spingere gli elettori a credere ancora possibile una vittoria travolgente, persino oltre il 30 per cento dei consensi. E Di Maio, nella gara a chi le spara più grosse con Renzi, ieri ha parlato addirittura del 40. E immagina che, sulla base di una vittoria (pure di misura), il presidente della Repubblica, in un sistema diventato più saldamente parlamentare, sia obbligato ad affidare a lui stesso un incarico.
È una fake news, come si dice oggi. Una balla sesquipedale, come si diceva un tempo. Di Maio non lo sa o finge di non saperlo, per cui nega ancora l'innegabile. «M5S non fa alleanze con nessuno e non sta pensando a chi aprire o con chi fare intese - ha scritto su Fb - Se il giorno dopo le elezioni i numeri non saranno sufficienti, allora ci rivolgeremo a tutte le forze politiche (in piena trasparenza) seguendo la prassi costituzionale». Appunto, la prassi è del tutto diversa. Il Capo dello Stato ha il dovere di valutare il grado di stabilità politica che una maggioranza può garantire. Se si trattasse della maggioranza variabile vagheggiata da Di Maio, l'incarico se lo potrebbe scordare.
Diverso sarebbe se Mdp riuscisse a superare il 10% e a svuotare il Pd; in quel caso, Di Maio ce la potrebbe fare. Anche se, per questione di gerarchie istituzionali, toccherebbe pur sempre a un ex presidente del Senato provarci per primo. Il Paese non è una gara a premi.
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