Roma Ha ragione Beppe Grillo, che dice di «non capire più cos'è vero e cos'è finto». Vero: arrivano a Palazzo Madama i 112 senatori cinquestelle, «numeri impressionanti, non c'è un'aula capace di contenerci tutti, gli eletti alla Camera e quelli al Senato», gongolerà il capo politico Luigi Di Maio, passato per un «saluto» ai nuovi arrivati. Però è falso, falsissimo che il candidato eletto Emanuele Dessì, pizzicato a pagare un affitto da 7 euro mensili si sarebbe immediatamente dimesso perché espulso dal M5S. È bastata la rinuncia al canone agevolato, la promessa di adeguarsi a un canone di mercato e il senatore risulta da ieri «reintegrato». Happy end che fa ben sperare tutti gli altri: macché sospesi, i solenni giuramenti fatti da Di Maio in favore di telecamere erano buoni solo in campagna elettorale. Oggi son belli e finti come l'oro di Bologna.
C'è dunque un «prima» e un «dopo», in questa vicenda della presa del Palazzo da parte dei grillini. Indirettamente lo sta confermando anche il nume tutelare Grillo («sono una prostituta in una città senza marciapiedi, non so dovo collocarmi»), quando in un'intervista rubata da Repubblica prima di un suo spettacolo sembra avvisare il navigante Di Maio: «Non assisterete a una mutazione genetica: l'epoca del vaffa è finita, ma quella degli inciuci non comincerà...». Paletti per il «capo politico»?
L'umore del popolare Giggino non è dei migliori, quando arriva a Palazzo Madama. Eppure terrà a dire (e postare su facebook, nuovo metodo di comunicazione opacissimo, mica trasparente) che «gli altri si agitano, noi abbiamo il sorriso stampato sulla faccia e con quello li facciamo impazzire tutti». Si vanta d'avere sdoganato l'esser sereno, anzi, l'esser «terribilmente sereno» che nella passata legislatura, scherza, «non si poteva più usare». Ripete le solite parole d'ordine rassicuranti per i suoi e un po' meno per gli altri. M5S sarà «perno» della legislatura, «decisivo» già nell'«emozionante settimana» che dovrà indicare la seconda e terza carica dello Stato. Eppure, «ragionando da maggioranza e non più da opposizione», come raccomanda ai neoeletti, il Capo grillino continua a marcare territori non consentiti. Vuole la presidenza della Camera, d'accordo. Da come ne parla, sembra avere in tasca l'accordo con il leghista Salvini. Per il governo, che «dobbiamo tenere ben distinto», Di Maio sprizza ottimismo da tutti i pori, ma non aggiunge una parola di più del risaputo, se non che «dei ministri si parlerà con Mattarella, dei temi con i partiti politici». Dunque l'incarico l'ha già avuto? E la benedetta lista dei «pre-nominati», fasulla anch'essa? Trovata elettorale per allocchi e semplicioni?
«Sarà difficile metterci nell'angolo», spiega, anche perché «non stiamo stravolgendo nulla». Però «usiamo il metodo nostro». E col metodo cinquestelle l'ampio dialogo viene impostato con paletti imprescindibili, come quello della fedina penale, che oggi purtroppo dice poco o nulla della probità di qualsiasi cittadino (il caso Romani docet) e della sua capacità a ricoprire una carica pubblica. Di Maio insiste a parlare degli uffici di presidenza, anch'essi trascinati nella trattativa, ma ancora una volta fa finta di ignorare che non può promettere nulla a nessuno (la rappresentanza di ciascun gruppo è garantita). Solo che pretende senatori che facciano «quel che vogliamo noi».
A cominciare dall'abolizione dell'«odioso privilegio dei vitalizi», per una legislatura che «spero possa soprattutto abolire tante leggi odiose». E così anche la categoria dell'odio legislativo ce la siamo terribilmente sdoganata.
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