Da Mani pulite alla galera per gli indagati. Quando invocava la forca giustizialista

La nemesi dell'ex Msi che tuonava contro i ladroni e faceva il moralizzatore

Da Mani pulite alla galera per gli indagati. Quando invocava la forca giustizialista

Milano - C'era un tempo in cui Gianfranco Fini sventolava le manette e faceva della moralizzazione politica il suo cavallo di battaglia. Erano gli anni di Mani Pulite. All'allora segretario del Msi bastava ascoltare la parola tangente o leggere di un avviso di garanzia per alzare l'indice e invocare le dimissioni, se non la galera. Qualche esempio? Quando il deputato repubblicano Antonio Del Pennino ricevette nel maggio del '92 un avviso di garanzia, Fini tuonò: «Il partito degli onesti perde colpi. Da oggi in poi, i repubblicani faranno bene a tacere sulla questione morale. Deve finire questa moda dell'autocensura di chi è accusato. Troppo spesso diventa un alibi per sfuggire all'autocritica. È molto meglio l'auto-arresto».

Insomma, Fini era più dipietrista di Di Pietro, tanto da chiedere le elezioni amministrative anticipate per dar vita proprio a una «lista Di Pietro» formata «con chi non vuol pagare le tangenti» e da sfilare in piazza imbracciando cartelloni contro i partiti finiti sotto accusa.

All'epoca non c'era nessun «coglione», erano tutti ladri e corrotti. «Occorre mandare a casa il governissimo dei ladroni, il ladronissimo Dc-Psi-Pds che ha inquinato la pubblica amministrazione milanese», chiosava Fini. E quando Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool, avanzò la proposta di condono per chi fosse coinvolto nelle inchieste sulle tangenti, Fini intervenne dimostrandosi ancora più severo della toga aggiungendo una conditio sine qua non: «Le sanzioni pecuniarie devono riguardare anche i partiti e non i loro singoli esponenti coinvolti».

È lo stesso Fini che predicava la forca giustizialista basandosi sui condizionali. Come fece con l'allora sindaco di Palermo Aldo Rizzo: «Ha predicato contro la mafia ma pare che facesse affari con personaggi al di sotto di ogni sospetto. L'Europeo documenta eloquentemente le compromissioni di Rizzo con mafiosi di sicura fede. Se non ci sono reati, emerge sicuramente un quadro di intrecci censurabile politicamente». O, giusto per fare un altro esempio, è lo stesso Fini che nel 1993, dopo il coinvolgimento nell'inchiesta tangenti del presidente dell'Olivetti, Carlo De Benedetti, chiese le dimissioni del direttore Eugenio Scalfari in quanto: «Come si fa a dirigere un quotidiano, tanto più moralista e moralizzatore come il suo, quando l'editore è implicato in prima persona nella questione morale, al pari di personaggi come Ligresti o altri?».

Col passare del tempo la musica non è poi così cambiata. Fini ha continuato a sostenere che i politici dovessero dare il buon esempio; che bisognasse disprezzare chi rubava senza scadere però nell'antipolitica; che la lotta alla corruzione non dovesse essere a intermittenza e che non si dovessero candidare i condannati in primo grado.

Al grido di «chi è indagato lasci gli incarichi di partito», Fini è stato giustizialista pure nella storia recente. Solo per citare alcuni dei casi più simbolici, ha chiesto le dimissioni di Denis Verdini dal partito quando era soltanto indagato. Lo stesso ha fatto con Nicola Cosentino, pretendendone le dimissioni anche da coordinatore campano del Pdl.

Poi, sul caso di Alfonso Papa, quando Fini era presidente della Camera, fu accusato di essere un «cinico burocrate che cerca di ribaltare la maggioranza con espedienti infimi» per aver conteggiato Papa ai fini del numero legale nonostante fosse in carcere. Il moralizzatore adesso però è finito nello stesso tritacarne politico-giudiziario che invocava per gli altri. Una nemesi storica travestita da paradosso.

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