«L ascerò a breve l'incarico che è stato l'onore della mia vita, la seconda donna Premier ma certo non l'ultima. Lascio provando un'enorme gratitudine per aver potuto servire il Paese che amo». È una bella giornata di sole quando Theresa May si presenta ai giornalisti accalcatisi di fronte al portone di Downing Street, per annunciare le proprie dimissioni. Tailleur rosso fuoco, collana d'ordinanza, il trucco che non riesce a nascondere la stanchezza degli ultimi giorni, May pronuncia il discorso più difficile della sua vita. Sull'ultima frase la voce s'incrina e non ce la fa a trattenere le lacrime prima di voltarsi e scomparire nuovamente all'interno del suo ufficio.
Alla fine le tanto invocate dimissioni sono state annunciate, il primo ministro passerà la mano il prossimo 7 giugno, portandosi dietro il grande rammarico di non essere riuscita a realizzare quello che i suoi connazionali volevano, la Brexit. «Ho fatto il possibile per raggiungere l'accordo ha detto ieri , per convincere i deputati a sostenerlo, ma purtroppo non ne sono stata capace. Ho provato a farlo per ben tre volte, credo che sia stato giusto perseverare. Ritengo che, nel miglior interesse del nostro Paese, un nuovo premier debba continuare in questo sforzo».
May ha aggiunto che per riuscire a raggiungere lo scopo anche il suo successore dovrà ottenere il consenso del Parlamento. «E questo consenso sarà raggiungibile ha insistito soltanto se tutte le parti saranno disposte a fare dei compromessi». Dopo un addio così emotivo, i ringraziamenti e gli elogi postumi sono arrivati a pioggia, anche da coloro che negli ultimi mesi hanno fatto di tutto per costringere la May a passare il testimone. Ora che l'ha fatto si ricomincia da capo con lo spettro della Brexit di cui la stessa premier è rimasta vittima, perennemente sullo sfondo.
Dopo le dimissioni ufficiali la corsa alla leadership inizierà nella settimana successiva del 10 luglio e Theresa May resterà in carico fino alla nomina del nuovo primo ministro che dovrebbe avvenire verso la fine di luglio. Questo significa che sarà ancora lei ad accogliere il presidente americano Donald Trump in visita ufficiale nel Regno Unito ai primi di giugno. Poi, per la politica inglese sarà una lunga estate calda, soprattutto per i Conservatori che, a detta del leader dell'opposizione Jeremy Corbyn, «ormai stanno andando verso la disintegrazione».
Vero è che un calo di consensi esiste, e lo dimostrano i recenti sondaggi per le elezioni europee che vedono i Tory soltanto al quarto posto con un misero 9%. Ma nel partito fortemente diviso la vera battaglia sarà tra Leavers e Remainers perché il nodo fondamentale da sciogliere, quello da cui dipende il futuro del Paese, resta la Brexit. Le opzioni che rimangono sul tavolo sono un'uscita senza accordo, un nuovo referendum o nuove elezioni. La scelta tra queste tre opzioni dipenderà dal nuovo primo ministro che i Tory eleggeranno. In lizza ce ne sono molti, alcuni di questi ben noti all'opinione pubblica come l'ex sindaco di Londra Boris Johnson, da sempre rivale della May e Brexiteer convinto. Sotto la sua guida un «no deal» appare estremamente probabile, mentre più incline al compromesso sarebbe l'attuale segretario degli Esteri Jeremy Hunt, che ha votato per rimanere in Europa pur non avendo risparmiato critiche alla gestione «sovietica dell'Unione Europa». Ha buone possibilità anche il giovane ministro degli Interni Sajid Javid, immigrato di seconda generazione che ha sostenuto il Remain, ma non ha mai nascosto il proprio euroscetticismo.
E sarà un'estate con poche vacanze pure per i Liberaldemocratici, in procinto di nominare un nuovo leader. Vincent Cable si farà da parte il 23 luglio, ma lascia un partito più forte, premiato dai consensi e deciso a giocare un ruolo di primo piano nella politica britannica.
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