La memoria corta dell'Europa sull'Olanda

Nessuno intervenne quando il governo dell'Aja voleva cacciare un rifugiato politico

La memoria corta dell'Europa sull'Olanda

«Tenere a mente l'imperativo umanitario». Così parlò Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Europea. In quella bacchettata all'Italia colpevole, anzi colpevolissima, di non accogliere con i tappeti rossi le navi di Sea Watch e delle altre Ong pronte a trasformarla in un immenso campo profughi c'è un'amnesia degna dello smemorato di Collegno. C'è da chiedersi dove fosse, o in quali faccende fosse affaccendata, la solerte Commissione Europea tra novembre e lo scorso gennaio. In quei mesi l'Olanda, il paese che offre gentilmente la sua bandiera alla Sea Watch, ma si rifiuta di accogliere uno solo dei suoi ospiti, tentò di deportare con la forza il dissidente armeno Sasun Tamrazyan, sua moglie Anousche e i loro tre figli Hayarpi, Warduhi e Seyra di 21, 19 e 15 anni. Quei cinque disgraziati, a differenza dei 42 migranti che la Sea Watch pretende di sbarcare in Italia, non erano approdati in Olanda spinti dal miraggio di un impossibile benessere. Ci erano arrivati perché papà Sasun era stato costretto fuggire dal proprio Paese in quanto perseguitato politico.

E i Tamrazyan non erano sbarcati in Olanda pochi giorni prima della richiesta di rimpatrio, ma ben nove anni addietro. Nove anni durante i quali i giudici avevano riconosciuto per ben due volte la fondatezza della loro richiesta d'asilo. Al terzo ricorso degli avvocati dello Stato, andato in giudicato sei anni dopo l'arrivo, un tribunale aveva però sposato le ragioni del governo respingendo la richiesta d'asilo. Lo scorso novembre le autorità erano dunque pronte a prelevare con la forza e a mettere su un aereo non solo Sasun e sua moglie, ma anche i tre figli cresciuti ed educati in Olanda. Nel frattempo il governo dell'Aja aveva smantellato anche il «kinderpardon» la vecchia legge - a cui come extrema ratio si erano appellati Sasun e i suoi - che vietava la deportazione dei minori rimasti per più di cinque anni nei Paesi Bassi. Assieme ai Tamrazyan sarebbero stati dunque deportati anche altri 600 figli d'immigrati. Il tutto senza che nessuno a Bruxelles, o nelle sedi delle compassionevoli Ong europee, s'interessasse del caso. Gli unici pronti a correre in soccorso della famigliola armena furono i preti della parrocchia di Bethel Chapel a L'Aja. Ricorrendo ad un'antica legge medievale che vieta alla polizia d'interrompere una funzione religiosa accolsero Tamrazyan nelle stanze della Chiesa e diedero il via alla recita della messa più lunga della storia. Per 96 giorni preti e diaconi si alternarono giorno e notte sull'altare fino a quando il governo, pressato da stampa e opinione pubblica, si vide costretto a rinunciare alla deportazione. Peccato che in quei 96 giorni di preghiere e appelli non si sia mai sentita né la voce dell'Europa, né quella della sua Commissione. Fosse stato per le autorità di Bruxelles - oggi così sollecite a sventolare in faccia all'Italia le bandiere dell'«imperativo morale» - il signor Sasun e la sua famiglia sarebbero stati messi su un aereo e rispediti al loro paese d'origine. E con loro sarebbero stati rimpatriati, nella più solidale indifferenza, altri 600 bambini immigrati.

Oggi, invece, nella versione della Commissione Europea i 43 migranti accolti da una nave di proprietà tedesca e battente bandiera dell'Olanda, rappresentano un «imperativo morale» esclusivamente per l'Italia. Tutti gli altri, Germania e Olanda in testa, possono, invece, continuare a infischiarsene. Con il beneplacito dell'Europa.

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