Paolo Manzo
Per i media messicani che hanno presidiato per ore quello che restava della scuola elementare Enrique Rébsamen nel quartiere di classe media di Villa Coapa, a sud di Città del Messico, Frida Sofia doveva essere il simbolo della speranza. Che anche in un evento tragico come il terremoto di magnitudo 7.1 che ha devastato la capitale Città del Messico insieme ad altri cinque Stati non poteva non mancare. E così dirette fiume non hanno mollato un secondo quello che ormai si era trasformato in un set televisivo, un po' come successe in Italia nel 1981 con il caso del piccolo Alfredo Rampi caduto in un pozzo a Vermicino. Dirette che non sono cessate neanche quando, invece, i soccorritori si sono fermati a causa di un'altra scossa di terremoto localizzata nell'istmo di Tehuantepec, a 646 chilometri dalla capitale. O quando ulteriori crolli all'interno dell'edificio hanno rallentato quasi del tutto le operazioni di soccorso. L'importante era non perdere di vista la storia clou di questo crollo dove già si erano contate 23 vittime, 19 bambini e 4 adulti.
E così come un tam tam la storia di questa Frida Luisa, ragazzina di 12 anni rimasta intrappolata sotto un tavolo di granito massiccio insieme ad altri quattro compagni ma con intorno tantissimi bambini morti, è stata diffusa per ore. In un crescendo di pathos. Pieno peraltro di dettagli realistici. Come il sensore termico con cui i soccorritori l'avrebbero localizzata e le sue prime parole con cui avrebbe raccontato come era incastrata. Una storia di cui una nazione forse aveva bisogno per aggrapparsi ad una speranza qualsiasi con oltre 270 morti e almeno duemila feriti, nonché edifici e interi paesi distrutti. Ma come una doccia fredda sono arrivate le parole nientedimeno che del viceministro della Marina, Ángel Enrique Sarmiento Beltrán, che ha dichiarato che non ci sono segni di vita di bambini ma solo di una donna che lavorava nella scuola, per la quale appunto si continua a scavare. Niente storia di speranza, niente Frida Luisa, nessun bambino da applaudire una volta tirato fuori vivo. Sotto accusa adesso finisce Televisa, famosissima nel mondo per le sue telenovelas ma con molti nemici in patria che ancora si ricordano di quando nel terremoto del 1985 per giorni parlò di un presunto salvataggio di un bambino di nome Monchito che poi si rivelò essere solo un'invenzione giornalistica. E anche stavolta a spingere verso una sorta di reality sul luogo del crollo sono stati proprio i reporter di Televisa che per primi avevano intuito l'impatto mediatico a livello mondiale di una storia del genere. E così ecco l'inviata Danielle Dithurbide lanciarsi in una diretta no stop, piena di lacrime e seguita a ruota, senza ipotesi di dubbio da canali nazionali e internazionali.
Per comprendere come questo sia potuto accadere basti ricordare che il presidente di Televisa, nonché figlio del fondatore è Emilio Azcárraga Jean, 49 anni, è vicino a quella ristretta oligarchia di famiglie ricchissime che come spesso accade in Sudamerica decidono anche quello che le persone debbono pensare. Tanto che da molti Televisa è stata ribattezzata «la fabbrica dei sogni». C'è da dire che nelle prime ore l'ammiraglio della Marina José Luis Vergara Ibarra aveva dichiarato alle telecamere presenti che i soccorritori avevano individuato una bambina viva sotto le macerie ma non erano state poi fatte più dichiarazioni.
Segno che le speranze ormai si erano perdute. Ma questo alle telecamere evidentemente non interessava. Fino al colpo di scena finale. Che ha reso ancora più tristi i messicani bisognosi in questo momento di buone notizie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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