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Mila batte i bulli del web dopo le critiche all'islam

In 11 condannati per il cyber-linciaggio della ragazza, insultata pure per la sua omosessualità

Mila batte i bulli del web dopo le critiche all'islam

«Lasciala morire con la bocca aperta»; «Meriti di farti tagliare la gola, sporca puttana»; «Qualcuno dovrebbe schiacciarle il cranio per pietà». È per questo «linciaggio 2.0» - oltre centomila messaggi di odio - per le minacce di stupro e morte, per i fotomontaggi in cui si evocava la fine del professore Samuel Paty sgozzato da un islamista in Francia, che undici giovani tra i 18 e i 29 anni, in gran parte studenti, sia atei che cristiani che musulmani, sono stati condannati dal Tribunale di Parigi per «cyberbullismo» (reato istituito da una legge macroniana del 2018) a pene da 4 a 6 mesi di prigione, con la condizionale, e al versamento di 1500 euro ciascuno alla vittima. Una condanna più lieve dei due anni che rischiavano i 13 imputati, ma pur sempre un verdetto significativo per il primo processo nato dopo la creazione di un polo nazionale specializzato contro i reati di odio sul web in Francia.

Protagonista e vittima Mila Orriols, oggi diciottenne, diventata in meno di due anni, da quando era appena sedicenne, simbolo insieme della libertà di espressione e dei diritti omosessuali, paladina contro l'odio online e contro l'integralismo e l'omofobia dell'islam. Con la voce rotta dalla commozione ieri ha ringraziato le poche femministe al suo fianco («le altre non si possono definire tali»): «Abbiamo vinto e vinceremo ancora. Non voglio mai più che si colpevolizzino le vittime».

La sentenza è la vittoria amara di una giovane combattiva dopo un «calvario» (così lo ha definito lei stessa) iniziato 18 mesi fa e diventato un caso nazionale denso di questioni scottanti: l'islam radicale, il diritto di critica delle religioni, l'odio in Rete, le libertà minacciate, dai social e dall'integralismo. Un caso talmente eclatante da aver scomodato il capo dello Stato.

Tutto comincia nel gennaio 2020. Mila, allora 16 anni e un'attiva vita social, riceve avances insistenti in Rete da un giovane musulmano. Lei spiega di essere omosessuale e a quel punto scatta una valanga di insulti. La giovane replica con un video in cui dichiara di odiare tutte le religioni, in particolare l'Islam. Parole forti anche le sue - «la vostra religione è una m...» - eppure considerate al termine di un'inchiesta «opinioni personali», seppur dal tono «olraggioso», ma non incitamento all'odio. Il filmato nel frattempo diventa virale e Mila finisce sotto scorta, 24 ore su 24. Ma non si ferma. A novembre 2020 posta un secondo video, seguito da una seconda ondata di odio contro di lei ed è su questi messaggi che viene imbastito il processo concluso ieri a Parigi.

Il caso della giovane ricorda da vicino la sanguinosa vicenda della redazione di Charlie Hebdo. Nella speranza che le minacce non si trasformino in furia omicida, la Francia si divide tra #JeSuisMila e #SeNeSuisPasMila, tra chi ritiene incendiarie e irrispettose le parole di Mila contro l'islam (la socialista ed ex ministra Ségolène Royal) e chi difende la libertà di criticare anche aspramente una religione senza finire alla sbarra come invece avviene in molti regimi islamici in cui religione e Stato sono un unicum e vige il reato di blasfemia. Emmanuel Macron dice la sua, definitiva: «La legge è chiara: abbiamo il diritto di blasfemia, di criticare, di fare la caricatura delle religioni». Eppure Mila è costretta a vivere sotto il costante controllo della polizia. Mentre accusa la Francia di essere «fragile e codarda», deve cambiare due scuole per le minacce.

Ieri è arrivata una parziale risposta dello Stato. Soddisfatta la Procura, per aver fatto valere il principio che «non c'è anonimato su Internet». «I social network sono la strada. Quando passa qualcuno, non lo insulti, minacci, sbeffeggi.

Quel che non si fa in strada, non si fa sui social media», spiega il giudice Michel Humbert.

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