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"La minaccia dell'Aventino contro il Cavaliere? Per il Pd sarebbe solo un segnale di debolezza"

Il costituzionalista Alfonso Celotto: "Letta deve cercare il dialogo, non sabotare o minacciare gesti estremi"

"La minaccia dell'Aventino contro il Cavaliere? Per il Pd sarebbe solo un segnale di debolezza"

Il fantasma dell'Aventino. L'uscita in massa dei grandi elettori del Pd per scongiurare l'avvento di Silvio Berlusconi. «Io credo che una mossa del genere sarebbe un segnale di debolezza, fragilità, mancanza di strategia da parte di Letta e del suo partito. Diciamola tutta - afferma Alfonso Celotto, ordinario di diritto costituzionale a Roma Tre - l'Aventino non ha mai portato bene, a partire dal '24, quando le opposizioni abbandonarono l'aula lasciando campo libero a Mussolini per consolidare il proprio potere».

Ma così il Pd manderebbe un segnale preciso: Berlusconi non è il presidente di tutti.

«Sono considerazioni che di solito valgono un giorno, poi spesso vengono dimenticate - risponde Celotto che ha appena pubblicato un saggio delizioso, L'enigma della successione, Feltrinelli, un viaggio su e giù per i secoli e dietro le quinte di democrazie e regimi autoritari - Chi diventa capo dello Stato lo sarà anche di chi non lo ha votato o è uscito. Io piuttosto mi soffermerei su un altro elemento».

Quale?

«L'uscita dall'aula puó incidere sul voto? In altre parole può abbassare il quorum? Come tutti sanno l'asticella non si sposta: due terzi nelle prime tre votazioni, la maggioranza assoluta dei grandi elettori dalla quarta».

Quindi l'addio all'aula danneggerebbe solo chi se ne va?

«Io capisco che Letta voglia scoraggiare la discesa in campo di Berlusconi, ma allora tratti in parlamento, faccia sentire la sua voce, suggerisca il nome di un candidato. A due settimane dal voto è necessario dialogare, proporre, suggerire. Non sabotare o minacciare gesti estremi. Ma credo, spero, che si tratti solo di chiacchiere. In ogni caso, il voto per la presidenza della Repubblica è assai diverso da quello per il governo».

In quel caso le defezioni contano?

«Certo».

E infatti con questa tecnica Giulio Andreotti varò nel 1976 il governo della non sfiducia.

«Esatto. Ma in quel caso la nascita dell'esecutivo fu un capolavoro di sottigliezza politica e il frutto della collaborazione fra i due partiti più importanti: i parlamentari del Pci uscirono dall'aula o si astennero, così da abbassare il fatidico quorum. E Andreotti ottenne la fiducia anche se si trattava di un governo monocolore, con i voti della sola Dc».

C'è anche il rischio che i grandi elettori siano bloccati dal Covid. Meglio votare da remoto?

«Non c'è alcuna obiezione formale contro il voto da remoto, ma il nostro parlamento non mi pare attrezzato per questa soluzione».

E allora?

«Andiamo per gradi. Se ci sono positivi asintomatici ci si può organizzare, per esempio con un tendone all'aperto: fra l'altro, in quel caso il parlamento è solo un seggio elettorale».

Ma se i malati fossero cento o più?

«È chiaro che si porrebbe un problema concreto, ancora di più se il cluster colpisse un partito a discapito di un altro. In questo contesto, io sarei per il rinvio».

Davvero il costituzionalista direbbe no al voto da casa?

«Ho già detto che il problema è solo tecnologico. Il parlamento europeo è molto più avanti su questa strada. Potremmo pure procedere, ma senza perdere di vista segretezza e sicurezza».

La scheda cartacea è meno riconoscibile?

«Certo. Anche se si narra che nel 72, quando poi fu eletto Leone, Fanfani si arrabbiò di brutto nel leggere su una scheda: Nano maledetto non sarai mai eletto».

E come reagì?

«Si dice che abbia ordinato una perizia calligrafica per scoprire il colpevole che però rimase senza nome. Naturalmente, ci vorrebbe uno scudo anche per tutelare il voto da remoto. Un hacker potrebbe intrufolarsi nel sistema e votare al posto di questo o quel parlamentare.

Per la nostra democrazia sarebbe un giorno da incubo».

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