La moglie di Dell'Utri: "Quella di Marcello non è pena, è tortura"

La moglie di Dell'Utri: "Quella di Marcello non è pena, è tortura"

Pubblichiamo ampi stralci della lettera che Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri, ha indirizzato all'onorevole Amedeo Laboccetta, che ha convocato una conferenza stampa oggi.

Caro Amedeo,

devo prima di tutto ringraziare te e altri esponenti del mondo politico... Premetto che non voglio strumentalizzare il caso di Marcello come un caso politico. La ragione, il buon senso, la dignità umana, il diritto alla salute non appartengono alla destra o alla sinistra, ma a tutti i Paesi che vogliono essere civili e che, in quanto tali, mettono al bando l'ingiustizia e il desiderio di vendetta e la crudeltà. Purtroppo, in questo momento, nel nostro Paese - la patria del diritto - il diritto è quotidianamente calpestato... Seguire, assieme ai miei figli, la vicenda di Marcello mi ha portato a confrontarmi con un sistema - quello detentivo - che spesse volte risulta assurdo nei suoi freddi meccanismi, inumano nelle pratiche, incomprensibile nelle consuetudini. È come se fosse un altro mondo... Marcello - come sapete - è stato trasferito al Campus Biomedico: è malato e deve curarsi. L'impossibilità di accesso alle terapie, negategli per mesi, lo ha ulteriormente debilitato. E, purtroppo, quello che dovrebbe essere un periodo di cura (quindi già di per sé difficile) si sta rivelando un ulteriore calvario, sempre più arduo da sopportare.

Mio marito è recluso in una stanza, guardato a vista da due agenti, 24 ore su 24, persino durante le applicazioni di radioterapia. Non può aprire la finestra, non può uscire dalla camera né tantomeno avere contatti con altre persone. Non può nemmeno avere una situazione adeguata al riposo durante la notte: una luce rimane sempre accesa per garantire (così recita l'ordinanza): «una continua e attenta sorveglianza durante tutta la durata e in ogni momento della degenza». L'unico momento di accesso all'aria aperta... è così frustrante da risultare quasi uno sberleffo. Marcello può camminare su una terrazza di copertura dell'edificio o, in caso di pioggia (frequente ultimamente) nel sottostante «locale condizionatori»: un luogo insalubre, dominato dall'assordante rumore dei macchinari che garantiscono il condizionamento di tutto il plesso ospedaliero. Questa è la situazione di Marcello. Ma è anche la situazione di tanti altri. Persone che subiscono quotidianamente, senza poter difendersi in alcun modo, la trasformazione della loro pena detentiva in «tortura». Lo so, «tortura» è una parola forte. Una parola che pare inaccettabile pronunciare nella nostra civile Italia. Una parola che tutti noi rigettiamo, collegandola a Paesi tanto lontani dal nostro quanto meno civili. Eppure questa parola «tortura» è una realtà, una realtà quotidiana nelle carceri del nostro Paese.

Ciò che mi annichilisce è la mancanza di umanità... Purtroppo il mio urlo è silenzioso, come quello di Munch. È silenzioso perché è il nostro Paese - l'istituzione che ci dovrebbe garantire - a non garantirci. A rubarci il diritto e a ridurci al silenzio... Nel caso di mio marito, come sapete, giuristi e tribunali non sono mai giunti a conclusioni univoche. La Corte di Strasburgo ha già chiesto chiarimenti all'Italia sulla detenzione di Marcello e sul capo d'accusa per il quale è stato condannato...

La certezza della pena non deve trasformarsi in rivalsa, non deve calpestare il diritto, non deve dimenticare quel senso di umanità che contraddistingue l'uomo dagli altri esseri. Altrimenti non sarà più pena. Sarà solo vendetta.

*moglie di Marcello Dell'Utri

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