Non è stata la mano di Dio, ma quella di Mario Draghi a imprimere un'accelerazione al congelamento delle riserve russe, l'architrave di tutte le sanzioni anti-Putin. Incapace di ritagliarsi neppure uno strapuntino al tavolo dei negoziati? Oscurato a turno da Biden, Macron, Sholz e perfino da Erdogan? Le rivelazioni di ieri del Financial Times raccontano un'altra storia. Quella che vede Janet Yellen, ministro del Tesoro Usa, ancora intenta a cesellare il provvedimento che ha poi bloccato l'arsenale valutario del Cremlino (650 miliardi di dollari). L'Europa è invece sulle spine. Vuol fare in fretta. Così, su invito della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, il premier si mette in contatto con la collega con cui aveva condiviso gli anni duri della Grande crisi, lui a capo dalla Bce, lei alla guida della Fed. Draghi deve aver usato argomenti convincenti, perché «entro la sera - scrive il FT - , l'accordo era stato raggiunto». Con un effetto spiazzante per Mosca.
Senza questo primo atto non ci sarebbe stato il secondo, andato in scena martedì, giorno in cui il Tesoro Usa ha ordinato alle banche nazionali di congelare i conti russi. Provocando un terzo atto: Mosca ha pagato in rubli due Eurobond da quasi 650 milioni di dollari. Così, in un perfetto rapporto di causa ed effetto, l'America ha spinto la Russia verso il default. Con largo anticipo rispetto al previsto. Doveva infatti durare fino al 25 maggio il salvacondotto che consentiva a Mosca di evitare le sanzioni e di onorare quindi i propri impegni finanziari. Non un gesto di benevolenza verso il Cremlino, bensì il solo modo per non danneggiare i creditori a stelle e strisce.
Di sicuro, la Russia ha accusato il colpo. Solo pochi giorni fa sbandierava il riacquisto dei due terzi circa di un bond in scadenza da due 2 miliardi di dollari, come a dimostrare di avere le risorse sufficienti per non rischiare la bancarotta. Adesso la musica pare cambiata. A denti stretti, il Cremlino ha nominato per la prima volta la parola tabù, «default». Lo ha fatto parlando di un evento «creato artificialmente» proprio a causa del blocco delle riserve.
I mercati, dove il costo dei Cds (l'ombrello a protezione di un eventuale crac) è lievitato dell'80%, non credono che la Russia riuscirà a evitare la bancarotta. E all'happy end non par credere neppure Ice Data Services, che accredita un 99% di possibilità di bancarotta entro l'anno. Le agenzie di rating sono in agguato. Nessun verdetto è ancora stato emesso, poiché l'obbligazione giunta a maturazione e ripagata in rubli è provvista di un periodo di grazia di 30 giorni. Ma i criteri di assegnazione del bollino nero della totale inaffidabilità finanziaria sono stringenti: scatta il default se il rimborso è effettuato in una valuta diversa rispetto a quella di denominazione, oppure se i creditori non hanno la possibilità di incassare il dovuto. Condizioni che Mosca non è ora in grado di rispettare, anche se un escamotage potrebbe essere quello di permettere ai possessori dei due eurobond la conversione dai rubli in valuta straniera, una volta rimosso il divieto di accesso ai suoi conti esteri.
La situazione più probabile è che comunque la Russia non riesca a evitare lo stigma del default. Anche una volta finita la guerra, Mosca dovrà sopportare un accesso limitato ai mercati finanziari e un minor flusso di capitali esteri, con ripercussioni gravi sulla stabilità economico-finanziaria.
Le conseguenze non sarebbero però indolori anche per i cosiddetti Paesi ostili, che vantano crediti nei confronti della Russia per 49 miliardi di dollari, cui vanno aggiunte le cedole sui bond societari (in particolare quelle di Gazprom e Rosneft) per complessivi 200 miliardi.
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