
Se il presidente della Bce Mario Draghi è preoccupato per le posizioni protezionistiche riaffermate con prepotenza da Donald Trump nel recente G7 di Taormina, figuriamoci le imprese italiane la cui prosperità - se non addirittura la sopravvivenza - dipende dalle esportazioni negli Usa. Aziende che sanno perfettamente come l'attacco rivolto dall'inquilino della Casa Bianca ai tedeschi, colpevoli di vendere troppe Bmw, Mercedes e Volkswagen sul suolo statunitense, sia estendibile a tutto ciò che è privo del bollino «America First».
Le barriere doganali, del resto, sono una autentica iattura per gli affari. E qui si parla di business miliardari, mica di noccioline, visto che il nostro Paese è il terzo partner commerciale, dopo Germania e Francia, degli Stati Uniti. Lo scorso anno le esportazioni hanno sfiorato i 37 miliardi di euro, con un aumento di circa un miliardo rispetto all'anno prima, contro i quasi 14 miliardi di importazioni di merci a stelle e strisce. Il saldo della bilancia commerciale è quindi ampiamente a nostro favore (+23 miliardi), nota di particolare demerito per il tycoon. Vendiamo soprattutto macchinari e apparecchiature (per oltre 7 miliardi), ma anche autoveicoli e rimorchi, altri mezzi di trasporto, prodotti alimentari, farmaci di base e preparati farmaceutici, oltre a evergreen come moda e pelletteria. E per quanto la politica monetaria dell'Eurotower abbia contribuito, attraverso la svalutazione della moneta unica, a rendere più competitivi i nostri prodotti, le fortune delle merci tricolori dipendono soprattutto da un mix di creatività, esclusività, eccellenza tecnologica e innovazione e molto meno dai rapporti di cambio. Altrimenti il mercato valutario, nel periodo in cui l'euro veleggiava attorno a un dollaro e mezzo, avrebbe creato situazioni di sofferenza difficilmente sostenibili.
Il danno che potrebbe derivare dall'introduzione di barriere commerciali è comunque potenzialmente rilevante. Uno studio recente di Prometeia azzardava anche una cifra: 800 milioni. A sopportare il peso maggiore di eventuali dazi, per un ammontare di 345 milioni, sarebbero i settori di punta del Made in Italy come moda, calzature, design e food. Un «pedaggio» di 216 milioni dovrebbero invece pagarlo la meccanica e i mezzi di trasporto. Ma nel calcolo andrebbero comprese anche le imprese italiane senza una sede sul territorio statunitense, cui sarà impedito dal cosiddetto «Buy American» di partecipare alle gare per le infrastrutture. Così come quelle dell'agroalimentare, che potrebbero subire ritorsioni anche a causa dalla direttiva dell'Unione europea che ha messo al bando la carne agli ormoni Usa, fonte di vecchie ruggini con l'amministrazione americana. Qualche tempo fa, la Coldiretti aveva infatti già messo in guardia dagli effetti collaterali prodotti dalla chiusura delle frontiere. Il rischio è quello di una proliferazione sul mercato statunitense di quello che viene chiamato «italian sounding». Un mercato da 20 miliardi costituito dai prodotti che non «falsificano» le nostre eccellenze enogastronomiche ma si limitano a evocare nel nome una presunta italianità. Un fenomeno più insidioso del taroccamento puro e semplice perché perfettamente legale.
Resta però da vedere fino a che punto le minacce di Trump si tradurranno in atti concreti. In questi primi mesi di presidenza le rodomontate elettorali sono state spesso ridimensionate e, talvolta, cancellate. Il caso più clamoroso è quello che ha riguardato i rapporti con la presidente della Fed, Janet Yellen, di cui The Donald minacciava la defenestrazione prima dell'inversione a U («Janet mi piace, può restare»). E, in ogni caso, dazi chiamano dazi.
A una politica commerciale Usa iper-protezionsta farebbero seguito ritorsioni tese a colpire le merci americane. Non è ciò che vuole una parte del Partito repubblicano, nè - tantomeno - le Corporation con i principali siti produttivi al di fuori dei confini statunitensi.