La prima ad uscire allo scoperto aprendo il dossier Quirinale, subito dopo il voto amministrativo, è stata Giorgia Meloni. «Lancio la sfida a Letta - tuona la leader di Fratelli d'Italia - siamo pronti a votare Draghi alla presidenza della Repubblica purché si vada subito alle elezioni».
Un immediato stop arriva da Forza Italia: «Nessun accordo su questa ipotesi», tagliano corto, ricordando come Silvio Berlusconi abbia ribadito che «Draghi deve restare al governo».
La «sfida» di FdI, in verità, sembra più un sintomo di debolezza che di forza: Meloni è una politica troppo navigata per non sapere che l'effetto è opposto alle intenzioni enunciate. Nessuno dei mille parlamentari, neppure i suoi, vuol sentir parlare di voto anticipato.
Del resto il ballottaggio di Roma è un'ipoteca pesante sulle sue ambizioni di leader della destra, ormai appese ad una vittoria di Michetti.
Del resto anche il ministro leghista Giorgetti, il primo a lanciare la candidatura di Draghi, lo aveva fatto con questo stesso secondo fine: blindare il premier a Palazzo Chigi fino a fine legislatura, e allontanare il voto.
Uno scenario al quale anche il Pd, nelle dichiarazioni ufficiali di Enrico Letta dopo aver incassato il successo elettorale, si sta riconvertendo. Il segretario dem, contando sulle divisioni del centrodestra, vuole posizionarsi come regista della partita per il Colle. «Saremo noi a dare le carte», dice ai suoi. E la prima cosa che si è preoccupato di fare, appena chiuse le urne, è stato rivolgere una captatio benevolentiae a Silvio Berlusconi, unico «federatore» del centrodestra, per coinvolgerlo nella prospettiva di una «maggioranza Ursula» (senza Lega e Fdi) per il Colle.
Ma le carte di Letta non sono molte, o meglio sono troppe: la sua area politica è affollatissima di potenziali o aspiranti candidati (da Prodi a Veltroni, da Gentiloni a Franceschini a Sassoli) che però rischiano di annullarsi a vicenda nella lotteria del voto segreto. Sposarne uno, per Letta, vorrebbe dire scontentare molti altri. Mentre le manovre corsare di chi - come Matteo Renzi - può fare da ago della bilancia tra destra (441 voti) e sinistra (467), mettendo insieme un corposo pacchetto di grandi elettori fuori dai poli, mettono a rischio qualsiasi strategia men che solida. Per non parlare del totale caos che regna nel Movimento 5 Stelle, dove l'unico elemento unificante è la durata della legislatura.
Ecco quindi che dentro il Pd, e non solo, si torna al punto di partenza: il Mattarella bis. «Non c'è altra soluzione - dice un autorevole parlamentare - Nessun altro nome riuscirebbe a raccogliere i 501 voti che serviranno dal quarto scrutinio in poi. Verranno bruciati una serie di candidati di bandiera, poi arrivati alla sesta o settima votazione andremo tutti in ginocchio al Colle ad implorarlo di restare».
E Mattarella, come già fece Napolitano nel 2013, difficilmente potrebbe sottrarsi. Andrà così? È molto presto per dirlo. Ma chi frequenta Palazzo Chigi dice che anche da quelle parti non si esclude che possa maturare uno schema simile.
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