Neppure il tasso zero rilancia l'economia. Anzi

La spirale deflazionistica non si arresta e nelle Borse cresce il "rischio bolle"

Neppure il tasso zero rilancia l'economia. Anzi

Colpita in pieno dal secondo choc petrolifero, all'inizio degli anni '80 l'Italia conviveva scomodamente con un'inflazione sopra il 20%. Il signor Rossi, mutuo a carico con tassi stellari, non avrebbe dunque avuto esitazioni di fronte alla prospettiva di tassi e carovita più freddi di un surgelato: «È l'Eldorado: dove firmo?». Quasi 40 anni dopo, si sarebbe forse pentito, rimpiangendo la scala mobile, la crescita economica del 3%, le opportunità di lavoro offerte in quel periodo e un debito pubblico non ancora alle stelle. In effetti non avrebbe torto. Abbiamo scoperto che la deflazione non è buona cosa, neppure i rendimenti negativi praticati ormai su scala globale, mentre continuiamo a soffrire gli elevati livelli di disoccupazione e un Pil che non si schioda - se va bene - dallo zero virgola.

Se così l'euro è finito nel mirino del Nobel Joseph Stiglitz, sulla graticola vengono messe con sempre maggiore frequenza anche la Bce e tutti le altre banche centrali incapaci, nonostante le continue misure di stimolo adottate, di ridare colore a economie anemiche e di liberarci dalla spirale deflazionistica. In un articolato studio sulle conseguenze delle attuali politiche monetarie, Standard&Poor's Global non va infatti troppo per il sottile: «Il percorso verso un contesto di tassi negativi è chiaramente un segnale disperato, con una serie di potenziali danni economici derivanti da queste politiche».

Male. Anche perché il fenomeno è tutt'altro che circoscritto. S&P ha calcolato che oggi 500 milioni di persone, cioè circa il 25% del Pil del pianeta, vivono in Stati dove i tassi sono sottozero; inoltre, più della metà dei bond sovrani - tipo i nostri Btp - hanno rendimenti negativi. Chi li compra, ci rimette. A patto di non incassare una plusvalenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita, ovviamente prima della scadenza. E ancora: tra giugno e luglio, l'ammontare delle obbligazioni di Stato e di quelle societarie era pari a 19mila miliardi di dollari, un quarto del mercato mondiale. Un vero e proprio fiume in piena. Il ricorso generalizzato ai tassi negativi ha «proporzioni senza precedenti - sottolinea lo studio - e riflette sia i limiti delle precedenti politiche monetarie non convenzionali, sia una generale incapacità di utilizzare gli stimoli fiscali per dare inizio alla crescita economica».

I rischi? Parecchi, secondo S&P: dalla formazione di bolle sui mercati finanziari a un'assunzione elevata di rischi data proprio dal basso costo del denaro che si prende in prestito. E se le assicurazioni e i fondi pensione si sentono penalizzati per i bassi ritorni sugli investimenti, le banche, soprattutto quelle tedesche, lamentano da tempo un'erosione dei margini che rischia di essere pagata dai correntisti attraverso l'applicazione di tassi negativi sui depositi (in Germania sta già succedendo). Gli istituti europei starebbero studiando l'ipotesi di tenere chiusi in veri e propri forzieri i contanti finora parcheggiati presso la Bce, su cui pagano attualmente lo 0,40%. Un pedaggio che dal 2014, anno in cui Mario Draghi ha introdotto i tassi negativi, è costato oltre 2,6 miliardi di euro.

E l'onere potrebbe essere ancor più salato in futuro, dal momento che l'ex governatore di Bankitalia ha ventilato la possibilità di ribassare ulteriormente i rendimenti. Un ulteriore incentivo alla fuga. Con ricadute negative sui prestiti concessi a famiglie e imprese. Proprio ciò che Draghi sta cercando di evitare.

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