
«Certo che ho visto il video delle ragazzine nomadi che rubano a Roma, e non capisco lo scandalo. Hanno capito bene come funzionano le cose in Italia. Negli altri Paesi anche se sei minore vai in carcere. Da noi due così devi riaffidarle ai genitori, anche se spesso padre e madre hanno precedenti dello stesso tipo, se non peggiori». Non trasuda ottimismo Patrizia Bolognani, assistente capo del reparto prevenzione anticrimine di Padova e sindacalista del Coisp. Che spiega come e perché «la polizia quando ha a che fare con i rom, spesso ha le mani legate».
Bolognani, per quasi 30 anni in servizio in strada, racconta la situazione di «grande svantaggio» in cui si trovano gli agenti quando devono entrare in azione nei campi nomadi, dove si è passati dalla specializzazione in «furti e truffe» alla criminalità organizzata. «Andiamo lì soprattutto per controlli su persone ai domiciliari o per eseguire arresti o perquisizioni su ordine dell'autorità giudiziaria. Ma prima troviamo la resistenza di associazioni che li tutelano e poi sono gli stessi nomadi a dimostrare di essere disposti a tutto per rallentarci». Lo scopo? Dare il tempo agli interessati di darsela a gambe. «Le aggressioni verbali e gli insulti sono la norma - prosegue la rappresentante del Coisp di Padova - e quelle fisiche tutt'altro che rare. Poi ci troviamo davanti bambini e donne incinte usati come scudi per ostacolarci». A quel punto i margini di azione, spiega Bolognani, sono ristretti. Non per le nuove «regole di ingaggio», che «sono rimaste una boutade mediatica». «Vorremmo le stesse regole di ingaggio e lo stesso armamento - sospira la poliziotta - dei nostri colleghi di Strasburgo, quelli di guardia al tribunale che dice che torturiamo. Che poi è lo stesso che dell'Italia censura anche la mancata tutela dei minori o i campi nomadi, argomenti che appassionano meno il partito dell'antipolizia».
A «legare le mani» agli agenti, invece, è la consapevolezza d'essere «disarmati» in una situazione di tensione e ostilità. «Noi - continua la rappresentante sindacale - non abbiamo tutela legale. Siamo esposti alle denunce, il dipartimento ci scarica e ci tocca arrangiarci. Da anni chiediamo almeno un'assicurazione, ma le compagnie - a differenza di medici e magistrati - ci ritengono inassicurabili». E a queste condizioni anche solo cercare nel campo la persona ai domiciliari da controllare diventa una lotteria. «Tu cammini tra insulti e ostacoli e magari una donna incinta dice che l'hai spinta a terra facendola cadere. E rischi di passare guai per qualcosa che non hai nemmeno fatto. Eppure noi non andiamo mica nei campi nomadi perché ci va, ma perché ci viene ordinato», o perché i cittadini chiamano per segnalare «incendi di copertoni, o gare d'auto, peraltro condotte spesso da minori». Insomma, se «sono tutti santi, perché ci tocca andare a trovarli così spesso?». E perché «una volta lì difficilmente riusciamo a entrare?». E anche entrando, lo stato d'animo non è dei migliori. «Metti le manette a qualcuno e speri che non abbia l'osteoporosi, casomai gli si spezzi un braccio. O lo insegui pregando che non sia cardiopatico, o lo immobilizzi augurandoti che non abbia problemi di anossia. Se poi la persona scappa, beh, almeno non rischi di finire tu sotto processo».
Così, per dirla con un paradosso, Bolognani ribadisce: «Per l'agente medio le ragazzine rom orgogliose di rubare, fanno bene. Tanto sono minorenni: anche se le prendi in flagranza, prima fingono di non capire la tua lingua, e poi tirano fuori il poker d'assi, i biglietti da visita degli avvocati».
Infine vanno riaccompagnate a casa, come dice la legge, e possono tornare a rubare mille euro al giorno. «Il problema è che viviamo in una società dove il senso civico è evaporato. E le leggi non si sono adeguate. Sicurezza non vuol dire fascismo. Vuol dire libertà».