Non solo numeri

Le tante vite della risoluta Francesca e quell'ultima videochiamata di Mario...

Non solo numeri

Era nata a San Colombano al Lambro solo perché un tempo, quando le donne dovevano partorire, tornavano dalla madre. E siccome sua nonna stava a San Colombano al Lambro, la sua mamma era andata proprio lì, per darla alla luce. Ma era milanese eccome, Francesca. Brusca nel raddrizzare tutto con una parola «perché alle cose non ci si arrende», allegra, generosa e milanesissima. Nell'accento e nella flemma, nel talento di moltiplicare le ore del giorno per farci stare dentro tutto, come nella sua inarrivabile cassoeula: figli, casa e lavoro (per tutta la vita ha aiutato il marito orafo in laboratorio e poi il figlio Andrea). Aveva novant'anni e aveva lavorato come un mulo tutta la vita. Da ragazza, prima di sposarsi, aveva iniziato a lavorare come sarta, ma guardandola, i proprietari dell'atelier non ci avevano messo molto a chiederle di posare ago e filo e di sfilare per loro, così tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi dei Cinquanta, divenne modella. Ma solo fino a quando non si sposò. Il marito era troppo geloso per vederla in passerella con quella vita da vespa, le gambe lunghe e la faccia da diva da fotoromanzo. Però l'ago lo riprese in mano: nel 1990, assieme ad un'amica per cucire l'abito da sposa di sua figlia Martina. Francesca rimase vedova nel 1992: aveva tirato grandi figli e nipoti, cucinato per un numero imprecisato di commensali (era un'abilissima cuoca e oltre alla cassoeula era fortissima su risotti, ossobuchi). Negli ultimi anni era diventata golosa. Una sera aveva decantato talmente tanto la torta che aveva fatto nel pomeriggio («la più buona della mia vita») che il figlio Andrea, passato a salutarla, le aveva timidamente chiesto di assaggiarne una fetta «non posso, l'ho mangiata tutta» fu la risposta. Aveva una risata da bottiglia appena aperta. Come quelle, copiose, stappate per festeggiare i suoi novant'anni, solo qualche mese fa. C'era una sontuosa torta alla panna in quell'occasione e i figli Andrea, Martina e Alberto e stuoli di nipoti, generi, nuore Tutti quelli che non hanno potuto aggrapparsi l'un l'altro per piangerne la morte. I sintomi le sono saltati addosso all'unisono. Lo scorso 25 marzo, e mentre la caricavano in ambulanza con evidenti problemi respiratori, scherzava ancora con quel milanesissimo accento assieme alla figlia e ai volontari. Ma il 27 mattina, è arrivata la telefonata. Di quelle che ti squarciano dentro con la deflagrazione di una granata.

PUGLIESE DOC Da quando l'ambulanza l'aveva portato via, lo scorso 23 marzo, la moglie Maria e le figlie Francesca e Cristina, lo vedevano solo in videochiamata sul tablet dell'ospedale, a un'ora prestabilita. «Sono qui» continuava a ripetere Mario lasciando le parole appese alle pause. E si può immaginare cosa ci stesse dentro quella frase. Sono qui e non ci voglio stare. Sono qui e sono solo. Sono qui e ho paura. Sono qui perché? Perché devo stare qui? C'era la forza raggelante della rassegnazione in un uomo che rassegnato non lo era mai stato. Neppure quando a settembre, a soli 62 anni, gli era stato diagnosticato un brutto tumore allo stomaco. Non aveva detto niente a nessuno, fino a quando non era stato pronto «Mi faccio operare, tento l'intervento» aveva deciso, anche contro il parere dei medici che l'avevano definita «un'operazione rischiosa». Ma l'aveva fatta e ne era uscito, anche dall'odiosa chemio che lo faceva sentire stanco e di vetro. E allora si dannava perché non riusciva ad essere utile in casa, ad andare a fare la spesa, ad aiutare l'adorato genero Piero («tu sei proprio il figlio maschio che non ho mai avuto» gli ripeteva sempre). In compenso aveva avuto tre nipoti maschi: Nicholas, Leonardo e Lorenzo.

Si adoravano a vicenda, letteralmente. E Mario adorava anche ballare, cantare, ridere, stare in mezzo alle persone. Parenti, amici, rumore, non vedeva mai il lato rotto delle cose e della gente. Era a Milano dal 1970, dove gestiva bar, tavole fredde, caffetterie, ma era nato a Gallipoli, terra grassa di sole e di ulivi e aveva una di quelle facce di quando gli uomini erano ancora maschi. «Sono qui...». Sessantadue anni sono niente per andarsene senza nemmeno salutare.

E ce l'aveva fatta a tenerseli i suoi anni, malgrado il tumore e la chemio e la paura. Come quella che aveva sentito salirgli dai polmoni, assieme alla tosse. «Sono qui...». Allora glielo dicono adesso la moglie, le figlie, i nipoti... «Non sei solo». Ciao Mario.

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